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L’ULTIMO CARNEVALE DEL MONDO

Vi giuro, quel giorno Venezia era così. Nessun filtro. Un cielo al tramonto che sembrava uscito dal pennello di Tiepolo, il riflesso sui canali immobili di bassa marea e un silenzio assoluto, imprevisto per l’ultima domenica di carnevale, il giorno in cui tutto precipitò.

A dire il vero non avevamo capito molto, quando appena risorti dai bagordi notturni ci vomitarono addosso messaggi e telefonate: coronavirus, carnevale cancellato, feste vietate, partenze di massa, quarantene, contagi, morti.

Al carnevale la percezione degli eventi esterni alla laguna è falsata e trasfigurata, sempre ammesso che avvenga. Per cui – dopo aver ricevuto assicurazioni sulla nostra unica preoccupazione, ossia il regolare svolgimento delle feste in programma – accogliemmo tali notizie con una singolare eccitazione aromatizzata dall’inquietudine: chi eravamo dunque noi che ci aggiravamo in tricorno, parrucca e bastone tra sparuti e impauriti viandanti in mascherina chirurgica? Dov’erano i confini del mondo ora improvvisamente ridotto a quell’intrico di calli e canali tinti di rosa? Ci avrebbero forse relegati lì, in quarantena, con nient’altro da indossare se non costumi settecenteschi e nient’altro da bere se non prosecco? Di questo si parlava la sera alla festa, e in tutti gli occhi leggevo la malcelata speranza che si potesse finire proprio così, in un turbine di baccanali tra soffitti affrescati e damaschi e arabeschi, abbigliati in abiti e belletto di secoli passati, sopraffatti dalla splendida depravazione della fine, come in un dipinto manierista di orge da basso impero, o nella sempiterna fascinazione degli ultimi giorni della Serenissima: l’ultimo carnevale del mondo.

Ma in questo, di mondo, non si riesce più a concepire poeticamente la vita, figuriamoci la morte. Anche il coronavirus, anziché ispirare poeti come fece la peste per Boccaccio, viene ridotto a uno sterile elenco di statistiche e danni economici. Però quel giorno, a Venezia, il tramonto aveva quella luce, mai vista una luce così. O forse non me ne sono mai accorto prima, perché la Bellezza si rende più evidente proprio nei momenti tragici. Non salverà il mondo, certo, ma può regalarci una fine sublime.

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LA CROCIATA DEGLI INNOCENTI – 21 FEBBRAIO 1920

“I bambini sfilavano via ordinati all’uscita del teatro, serrandosi al braccio delle madri, fiere di trattenere il pianto. La bora assassina di febbraio prendeva a rasoiate la faccia e congelava aliti e lacrime in un fine nevischio. Nonostante la divisa pesante, il maglione a collo alto della trincea e il mantello grigioblù rubato alla cavalleria francese, tremavo appoggiato a un angolo della piazzetta di Sant’Andrea, io che avevo resistito agli inenarrabili inverni del Carso. E quei bambini, invece, marciavano serissimi e compunti con le ginocchia scoperte, senza una sbavatura, che il maggiore sarebbe stato fiero di loro e avrebbe ficcato medaglie su tutti quei baveri consunti. Quegli stessi bambini che tutti i giorni improvvisavano qua e là comizi sulle scale di casa, chiamando all’adunata altri coetanei e spesso superando in maestria i discorsi che udivano dai grandi – esordendo con qualcosa come “Fanciulli di Fiume, bambini d’Italia, in questo giorno solenne…” e concludendo sempre con un argentino alalà – avevano appena ascoltato al teatro Fenice il discorso tenuto in loro onore dal Comandante in persona e dal nuovo capo di gabinetto Alceste De Ambris: il discorso per i primi duecentocinquanta bambini – che arriveranno fino a quattromila entro l’estate – costretti ad abbandonare Fiume per non morire di stenti degni di una rocca assediata dai Lanzichenecchi.”

Dal mio “Sulla cima del mondo – il romanzo dei ribelli di Fiume”, ed. Historica 2019.

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LE SPOGLIE DI RICCARDO GIGANTE

Oggi le spoglie di Riccardo Gigante, sindaco di Fiume nel periodo dannunziano (nonché, successivamente, podestà e senatore del Regno), saranno finalmente tumulate al Vittoriale, accanto a Gabriele d’Annunzio e ad altri legionari fiumani, nell’arca per lui predisposta dal Vate.

Si chiude così simbolicamente il cerchio di una storia iniziata 100 anni fa, una storia di stima e di amicizia che legò Gigante e d’Annunzio, una storia finita per Gigante in una foiba di Castua il 4 maggio del 1945.

Parlo di lui e della sua tragica fine nel mio “Sulla cima del mondo – il romanzo dei ribelli di Fiume”, tra gli eroi che fecero dell’Impresa di Fiume “la bella tra le belle”.

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LE FONDAMENTE NOVE

“Davanti alle Fondamente Nove cercava l’ispirazione da quell’inutile sole invernale, che avrebbe donato ancora per qualche minuto pallidi riflessi paglierini all’isola di San Michele.”

da “Il Sole a Occidente”, parte III, cap. IV

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I TETRARCHI

Sempre lì ad aspettarmi, i Tetrarchi, a ricordarmi l’ispirazione che mi donarono ormai dieci anni fa, quando scrissi in un mese di isolamento veneziano “Il sole a Occidente” ora tradotto anche in francese come “L’ange de la décadence”.

Proprio loro hanno dato il titolo a una sezione del romanzo, che si conclude con queste parole, quando i quattro protagonisti si abbracciano:

“Un solo corpo, una sola emozione che può volare più in alto di qualsiasi altra cosa. E in questo preciso istante i Tetrarchi tornano a essere quel blocco unico di porfido, quell’unità originaria contenuta nella pietra prima che lo scalpello di quell’ignoto scultore bizantino la portasse allo scoperto, sciogliendola per sempre.”

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LA PELLE

Quando rileggi un libro dopo vent’anni hai l’impressione di farlo per la prima volta, perché sei un’altra persona. Ma è solo l’impressione, perché molto di quella scrittura è entrato a far parte di te.

Mi accorgo che, tra le altre cose, la mia penna è debitrice a Curzio Malaparte per il massimalismo, per il gusto dell’iperbole, per l’aspirazione a trasformare la crudezza in poesia e la poesia in crudezza.

Pochi come lui hanno saputo utilizzare la lingua italiana in tutta la sua meravigliosa complessità, una lingua che come nessun’altra può parlare dell’animo umano, dalle vette alle bassezze. Proprio quelle del popolo italiano alla fine della Seconda Guerra Mondiale, trasfigurato in quella Napoli che Malaparte ha vissuto, compreso e raccontato con maestria, così come ha magistralmente descritto l’ottusa incomprensione negli occhi sempliciotti dei “liberators” americani, sbarcati in quella bolgia dantesca gravida di tutte le nostre italiche contraddizioni. Che solo un italiano può forse riuscire a capire, e Malaparte, anche in questo, è stato arcitaliano. Nel bene e nel male.

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A FIUME, CENT’ANNI FA

L’11 gennaio 1920 Alceste De Ambris, sindacalista rivoluzionario appena nominato capo del governo fiumano da Gabriele d’Annunzio, tiene al Teatro Fenice un discorso d’insediamento rivolto contro le potenze capitalistiche Inghilterra, Francia e Stati Uniti, contro l’egoismo dei popoli ricchi che avrebbe ceduto alla sollevazione dei popoli oppressi ora riuniti sotto il simbolo dell’Impresa fiumana, concludendo con il celebre: “Non è mai tardi per andar più oltre”.

E in effetti Fiume, da quel giorno, iniziò un cammino che la portò molto oltre l’iniziale intento di annessione all’Italia, diventando un laboratorio di sperimentazioni sociali e politiche avanzatissime che trovarono il loro coronamento nella Carta del Carnaro.

Nel mio romanzo “Sulla cima del mondo – il romanzo dei ribelli di Fiume” narro il momento in cui Mario Carli presenta il primo numero del suo giornale “La Testa di Ferro” dove è riportata in prima pagina la frase di De Ambris, con la riproduzione della testata originale gentilmente concessa dall’Archivio Museo Storico di Fiume a Roma.

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FINE D’ANNO

“L’anno moriva, assai dolcemente. Il sole di San Silvestro spandeva non so che tepor velato, mollissimo, aureo, quasi primaverile, nel ciel di Roma. Tutte le vie erano popolose come nelle domeniche di maggio. Su la Piazza Barberini, su la Piazza di Spagna una moltitudine di vetture passava in corsa traversando; e dalle due piazze il romorìo confuso e continuo, salendo alla Trinità de’ Monti, alla via Sistina, giungeva fin nelle stanze del palazzo Zuccari, attenuato.”

Gabriele d’Annunzio, “Il piacere” (1889)

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UN FUOCO FATUO CHE CI ILLUMINA ANCORA

“I drogati sono i mistici di un’epoca materialistica che, non avendo più la forza di animare le cose e di sublimarle in simbolo, operano su di esse un procedimento inverso di riduzione e le consumano e le logorano fino a raggiungere in esse il nucleo del nulla. Essi sacrificano al simbolismo dell’ombra per controbattere il feticismo del sole, che detestano perché ferisce occhi già stanchi.”

Nel novembre di 90 anni fa, moriva suicida con un colpo di rivoltella al cuore lo scrittore surrealista-dadaista Jacques Rigaut, appena trentenne. La parabola della sua vita geniale e dissoluta viene raccontata nelle sue ultime fasi dall’amico Pierre Drieu La Rochelle nel romanzo “Fuoco fatuo” (titolo originale “Le feu follet”), da cui è stato tratto il film omonimo di Louis Malle nel 1963. Purtroppo nel film, che risente del noioso bigottismo anni ’60, Rigaut non viene presentato come eroinomane, ma come “semplice” alcolizzato (dove tra l’altro si intravede bere in una sola scena), il che va a sovvertire completamente la valenza del suo essere tossicomane in rapporto alla società del tempo.

Ovvio che consiglio la lettura del romanzo – forse la produzione migliore di Drieu La Rochelle, morto anch’egli suicida nel 1945 – nel quale non si racconta solamente la vita dannata di Rigaut, ma di tutta quella generazione di artisti ribelli uscita dalla Prima Guerra, una generazione che cercava, in quel decennio irripetibile dei “folli” anni ’20, la sua strada, fosse anche quella di chiamarsi fuori da un’Europa in deriva materialistica, dove l’arte e il culto della Bellezza cantavano – in un ultimo ineguagliabile barbaglio di splendore – il loro requiem.

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AI MIEI LETTORI

In questi tempi di volgare visibilità non basta scrivere un bel libro. Non contano, come dovrebbero, gli apprezzamenti del lettore colto o del critico raffinato – dunque la “qualità” – ma ciò che decreta la fortuna o la sfortuna di un’opera è esclusivamente la “quantità”: quanti libri venduti, quante recensioni, quanti like. Non entro nel merito di ciò che è giusto o sbagliato, mi limito a constatare lo spirito dei tempi. E ad accettarlo, mio malgrado.

Dunque vi ringrazio di cuore per i messaggi di apprezzamento che ricevo quotidianamente in privato per il mio “Sulla cima del mondo”, sono la più grande soddisfazione per uno scrittore, credetemi. Tuttavia vi invito, se ne avete voglia e se avete amato il romanzo, a rendere pubblico il vostro apprezzamento tramite foto, post e story sui social, e con recensioni sulle librerie on-line come Amazon o IBS.

Contro lo strapotere e il monopolio dei colossi editoriali, nonché del triste “pensiero unico” imperante, il PASSAPAROLA (reale o virtuale che sia) è la nostra sola arma. Anziché subire l’imposizione di questi strumenti “social”, serviamoci piuttosto di loro per far circolare le nostre idee. Anche e soprattutto se scomode, controcorrente, scorrette, almeno finché sarà possibile.

Da una Roma grigia flagellata da uno scirocco impietoso, vi auguro una bella domenica. E vi ringrazio ancora.