Dopo mesi e mesi d’ignobile stasi creativa, è giunto il momento di mettermi al lavoro sul nuovo romanzo. Ora non mi resta che invocare le care vecchie Muse latitanti.
“O Muse, o alto ingegno, or m’aiutate; o mente che scrivesti ciò ch’io vidi, qui si parrà la tua nobilitate.”
Il 20 novembre del 1920 Arturo Toscanini giunge a Fiume con tutto il corpo orchestrale della Scala di Milano, per supportare la causa di Fiume italiana negli ultimi giorni della Reggenza.
– Onore a Toscanini, orgoglio d’Italia! – gridava la folla compressa alla stazione quando il sole era appena tramontato sul venti novembre del venti. – Viva Toscanini! Viva l’Italia! – e i cappelli svolazzavano nell’aria che respiravamo in quell’autunno freddo d’incomprensione della nostra patria, stordita dalle feste imminenti e dai vitelli grassi da ammazzare. Il sindaco di Fiume, Riccardo Gigante, aspettava in pompa tricolore il Maestro. Lui scese scolpito nei suoi occhi di fuoco wagneriano, seguito dai novantotto orchestrali della Filarmonica della Scala e dalla famiglia, compresa Wally – la figlia bella come una zingara.
Il giorno successivo presenzierà, insieme agli orchestrali, a una festa guerresca in suo onore tenuta dai legionari dannunziani a Cantrida, per poi tenere la sera stessa un memorabile concerto al Teatro Verdi di Fiume.
Sulla cima di Cantrida, la mattina dopo, tentavo di serrare i ranghi dei miei arditi scapigliati per la festa guerresca in onore del Maestro, presenti anche i novantotto orchestrali in tenuta da battaglia con tutti gli strumenti sul palco d’onore, accanto al Comandante. Francucci faceva roteare le granate sull’unica mano che aveva assorbito anche la forza dell’altra, e mettemmo su attacchi a cime inesistenti, sventagliate di mitraglie e abbagli di mortai, sciabolati da una bora infernale che sembrava piombarci addosso da altezze siderali. Alcuni violoncelli andarono in pezzi, sfasciati dalle schegge delle bombe a mano, ma gli orchestrali applaudivano, nonostante tutto, come il popolo di Fiume applaudiva la sera stessa al teatro Verdi in un delirio d’amore. Eva era abbagliante in divisa ardita e giri di perle fluviali color proiettile, stretta al mio braccio in platea. Gli orchestrali reduci dalla mattinata guerresca a Cantrida avevano tutti la medaglia di Ronchi infissa al bavero del frac, e quando il Maestro salì sul podio il teatro venne giù di applausi e grida megafoniche.
I brani eseguiti al concerto furono, nell’ordine: Vivaldi – Concerto in la minore per orchestra d’archi; Beethoven – Quinta sinfonia in do minore, o del destino; Sinigaglia – Piemonte suite; Debussy – Iberia; Respighi – Fontane di Roma; Wagner – L’incantesimo del Venerdì Santo; Verdi – I Vespri Siciliani, sinfonia; Wagner – La morte di Isotta (concessa per il bis).
Immagine dell’opuscolo originale, per gentile concessione del Museo Storico di Fiume a Roma.Nei virgolettati alcuni estratti del mio romanzo “Sulla cima del mondo – il romanzo dei ribelli di Fiume” ed. Historica (2019).
Agli albori del nuovo millennio, quando eravamo ancora analogici. E liberi. Tutto stava per finire, ma non ce ne rendevamo conto. (Ispirazioni per il nuovo romanzo)
Nel giorno del centenario della nascita di Gesualdo Bufalino, vorrei ricordare questo grande scrittore ed erudito con la sua celeberrima opera prima, la “Diceria dell’untore” (riferimenti al momento attuale sono puramente casuali). Pubblicata nel 1981 su consiglio di Sciascia, quando lo schivo professor Bufalino aveva già passato i sessant’anni, divenne immediatamente un clamoroso successo letterario e vinse il Premio Campiello.
Bufalino lavorò per molti anni al testo, limandolo, ornandolo e cesellandolo fino a consegnarci un capolavoro dove nulla può essere più tolto o aggiunto (caratteristica di ogni capolavoro, del resto). La storia si dipana come un’opera teatrale in un sanatorio siciliano nell’immediato dopoguerra, dove Bufalino realmente soggiornò nel 1946, guarendo poi dalla tubercolosi. Questo è l’unico elemento reale della vicenda, poi tutto si fa allucinazione, recitazione, declamazione, tutto si pone all’opposto del realismo, in un colto stile barocco mai sbrodolato, ricchissimo di figure retoriche e rimandi letterari che pescano nell’immensa cultura dell’autore. Per chi ama la lingua italiana in tutta la sua complessità, la Diceria è uno scrigno di pietre preziose ben tagliate; per chi detesta il minimalismo anglosassone (sul quale gli scrittori contemporanei bramano invece appiattirsi), la Diceria rappresenta un bagno rigenerante e salvifico.
E poi c’è tutta l’anima della Sicilia che sguazza compiaciuta in quel groviglio di Amore e Morte, rassegnazione, memoria e iperbole, che solo il professor Bufalino di Comiso – autentico assertore della salvaguardia culturale, linguistica e, diremmo oggi, “identitaria” della Sicilia – poteva far risplendere nella sua luce accecante.
“Sai come si dice, nel mio dialetto, dare il contagio? Ammiscari, si dice. Cioè mescolare, mescolarsi con uno. Significa ch’è un travaso di sé nell’altro, altrettanto mistico, forse, di quello di altre due assai diverse solennità: voglio dire la comunione col sacro nell’ostia; e la confusione, sul letto, di due corpi amici.”
Il 13 novembre del 1920, il tenente Guido Keller, asso della squadriglia volante di Francesco Baracca durante la Grande Guerra e segretario d’azione di Gabriele d’Annunzio, raggiunge Roma da Fiume a bordo del suo biplano, dirigendosi verso il Vaticano. Qui lascia cadere una rosa bianca accompagnata da un biglietto: “ALA, Azione nello Splendore. A Frate Francesco”. Poi si dirige sul Quirinale e lancia un mazzo di sette rose rosse: “ALA, Azione nello Splendore, alla Regina e al Popolo d’Italia”. Tuttavia il suo vero obiettivo è Montecitorio, dove sgancia sul tetto un vaso da notte contenente un mazzo di carote e uno di rape, col seguente biglietto:
“AL PARLAMENTO ITALIANO S.P.M. GUIDO KELLER, ALA, AZIONE NELLO SPLENDORE, DONA AL PARLAMENTO E AL GOVERNO CHE SI REGGONO DA TEMPO CON LA MENZOGNA E CON LA PAURA, LA TANGIBILITÀ ALLEGORICA DEL LORO VALORE”.
A distanza di cent’anni esatti dedichiamo con immutato ardore queste parole ai governanti attuali “che si reggono da tempo con la menzogna e con la paura”… Grazie ancora una volta, Guido Keller!
Il 18 e 19 settembre 2020 si è svolto a Milano il primo trofeo Arbiter per gli abiti su misura, che ha visto coinvolti i migliori sarti italiani. Ho avuto la fortuna di indossare l’abito creato dall’amico Francesco Florio, che si è aggiudicato il premio per il miglior pantalone.Una bellissima esperienza, resa indimenticabile dalla magnifica organizzazione di Arbiter.
Il Piave mormorava Calmo e placido, al passaggio Dei primi fanti, il ventiquattro maggio L’esercito marciava Per raggiunger la frontiera Per far contro il nemico una barriera
Muti passaron quella notte i fanti Tacere bisognava, e andare avanti
S’udiva intanto dalle amate sponde Sommesso e lieve il tripudiar dell’onde Era un presagio dolce e lusinghiero Il Piave mormorò: “Non passa lo straniero”
Ma in una notte trista Si parlò di un fosco evento E il Piave udiva l’ira e lo sgomento Ahi, quanta gente ha vista Venir giù, lasciare il tetto Poiché il nemico irruppe a Caporetto
Profughi ovunque, dai lontani monti Venivan a gremir tutti i suoi ponti
S’udiva allor, dalle violate sponde Sommesso e triste il mormorio de l’onde Come un singhiozzo, in quell’autunno nero Il Piave mormorò: “Ritorna lo straniero”
E ritornò il nemico Per l’orgoglio, per la fame Volea sfogare tutte le sue brame Vedeva il piano aprico Di lassù, voleva ancora Sfamarsi e tripudiare come allora
“No” disse il Piave, “No” dissero i fanti Mai più il nemico faccia un passo avanti
E si vide il Piave rigonfiar le sponde E come i fanti combattevan le onde Rosso del sangue del nemico altero Il Piave comandò: “Indietro va’, straniero”
Indietreggiò il nemico Fino a Trieste, fino a Trento E la vittoria sciolse le ali al vento Fu sacro il patto antico Tra le schiere, furon visti Risorgere Oberdan, Sauro, Battisti
Infranse, alfin, l’italico valore Le forche e l’armi dell’impiccatore
Sicure l’Alpi, libere le sponde E tacque il Piave: “Si placaron le onde” Sul patrio suolo, vinti i torvi Imperi La Pace non trovò né oppressi, né stranieri!
Spesso ho provato a descrivere quello che considero il capolavoro di Nabokov, ma vuoi per timore reverenziale, vuoi per l’effettiva impossibilità di afferrarlo, non sono mai riuscito a trovare le parole (a differenza di Nabokov, che le trova SEMPRE). Tuttavia un simile romanzo non può rimanere semisconosciuto, e il nome dell’immenso Nabokov associato solo a “Lolita”. Ecco, prima di affrontare Ada, bisogna dimenticarsi di Lolita. Ma non troppo, perché l’erotismo nabokoviano impregna ogni pagina, sempre nel suo stile impareggiabile, anche negli eccessi, perfino nell’incesto che ci ritroviamo ad amare come il filo che lega tutto il romanzo.
Prima di affrontare Ada bisogna prepararsi a una lettura impegnativa, coltissima, a volte ridondante e pretenziosa. Ma non troppo, perché Nabokov la maneggia con disinvolta leggerezza e acuta ironia, prendendosi in giro e prendendoci in giro così bene che riusciamo a gustare tutto il lauto pasto, inchinandoci alla sua grandezza: i giochi di parole tra il russo, il francese e l’inglese (da diventare matti) inseriti in una narrazione mirabolante e vertiginosa come un ottovolante; l’ambientazione in un passato futuristico a cavallo tra un ‘800 e un ‘900 che non sono mai esistiti, ma che emergono così reali che ci chiediamo se non ci sia davvero un’Anti-Terra dove Van e Ada si sono desiderati e respinti per novant’anni; i continui rimandi, spesso dissacranti, ai grandi autori russi – Tolstoj in testa – e all’immancabile Proust. In effetti Ada potrebbe essere considerata la “Recherche” di Nabokov, dove c’è tutto del suo genio letterario.
Mi fermo qui. Non vogliatemene, era giusto per dare un’idea, e magari farvi venire il desiderio di affrontare questo capolavoro di 600 pagine (più le 30 di note) che, vi assicuro, vi farà scalare vette dove raramente è arrivata la letteratura.
“Quel giorno di maggio del 1797 in cui Venezia avvistò alle bocche di Malamocco le navi del futuro “imperatore dei francesi”, capì che la propria indipendenza era finita per sempre e che per sopravvivere, negli anni a venire, sarebbe stata costretta a matrimoni forzati col dominatore di turno. Sapeva che quell’ometto gonfio di sé non sarebbe stato capace – né degno – di farsi soggiogare dal suo fascino, quindi rinunciò a vestirsi coi suoi abiti migliori. Ne aveva tanti, accumulati nei secoli e indossati alle ultime feste durante le quali, consapevole della fine imminente, si era lasciata andare a tutti gli eccessi; ma quel giorno indossò un semplice tabarro di seta e si coprì il viso con una pesante veletta nera, prendendo un lutto che non abbandonò più. […]
Col tempo divenne sempre più taciturna e impenetrabile, eppure capace di leggere nell’animo degli esseri umani che si perdevano nei suoi dedali. Ma solo ad alcuni di essi accordò l’immenso privilegio di spingersi nei suoi recessi più intimi e di respirare l’alito della sua anima più vera, al prezzo di un’eterna e incondizionata devozione. E solo a quei pochi permise durante il Carnevale, quando smetteva il tabarro nero e tornava a indossare lo sfarzo dei secoli migliori, di godere dei suoi gioielli nascosti. Si trattava di spiriti macerati dalla continua ricerca del Bello, dalle emozioni artificiali, spiriti sfibrati dall’abitudine di smarrirsi nei propri mondi. Essi erano i prescelti.”
Tratto da “Il sole a Occidente”, ed. Historica (2016)