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CASTEL DEL MONTE

Assoluto.
Così ti accoglie il Castel del Monte di Federico II, al termine di una lunga camminata per la pineta ipnotizzato dal frinire delle cicale esaltate dal sole a picco, assoluto anch’esso, senza una nuvola a sporcare l’azzurro del cielo. Pure questo, certamente, assoluto.
E poi c’è il colore della pietra di Trani sulle otto colonne ottagonali a reggere le otto pareti imponenti, otto come il numero del ritmo, della vita, orientato come la piramide di Cheope a custodire una potenza ancora da svelare.
Una meraviglia.
Assoluta.

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LORD BRUMMELL

Un magnifico Lord Brummell ritratto sui muri dell’ex mattatoio romano di Testaccio.

“Crudeltà, viltà, disordine, degrado, immoralità, spregevolezza, vergogna, tradimento: su quale superficie immortalare le ansietà di pensieri che si nutrono di ideali, alte speranze, nobiltà malinconiche, corali armonie, linfa di sguardi che sfiorano, accarezzano, anelano alla perfezione e i cui corpi, tesi a irreprensibile presentabilità, si preoccupano di uccidere sogni immondi per salvare la propria anima?”

(Ivano Comi, “George Bryan Brummell”, Editrice Stefanoni 2008)

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COCAINA

“Cocaina” fu il romanzo d’esordio nel 1921 della scintillante carriera di Pitigrilli e, insieme ai successivi quattro romanzi della “prima fase”, segnò per sempre la sua fama di scrittore immorale e peccaminoso, ancora più evidente in quell’Italia che si avviava verso il bigottismo del Ventennio che gli costò svariate censure (con l’ovvio effetto di generare, come di solito accade, una curiosità pruriginosa). Bisogna dire che i vertici del fascismo si adoperarono sempre per scagionarlo – nonostante Pitigrilli non volle mai iscriversi al partito – compreso il Duce, suo assiduo lettore. «Mi piacciono i vostri libri» disse infatti un giorno, «ma voi non siete uno scrittore italiano: voi siete uno scrittore francese che scrive in italiano».

In questo aveva fatto centro. Pitigrilli ebbe il merito (e la scaltrezza) di comprendere quanto la Parigi degli anni folli in Italia profumasse a prescindere di peccato e perversione, quest’ultima intesa non solo di costumi, ma anche di pensiero. Forte di un lungo soggiorno giornalistico a Parigi, Pitigrilli inaugura con “Cocaina” il suo stile fulminante, irriverente, sarcastico, un po’ piacione ma godibilissimo, fatto di anti-eroi disillusi che sguazzano a loro agio tra feste maledette e sordidi puttanai, sempre in compagnia di donne (“mammiferi di lusso” o “dolicocefale bionde”) sofisticate dai profumi di Coty, comunque corrotte, ciniche, spesso letali.

Come dimenticare la festa “nella villa della signora Kalantan Ter-Gregorianz, biancheggiante tra l’Étoile e la Porte Maillot, in quella zona mondana che costituisce il quartiere aristocratico della cocaina”? Il protagonista Tito Arnaudi (giornalista torinese trapiantato a Parigi, suo evidente alter-ego) si troverà in un turbine di balli in frac e champagne a tirare cocaina accanto a ricchi industriali che si iniettano morfina nelle cosce, mentre sfolgoranti farfalle brasiliane vengono liberate per vederle morire avvelenate dagli effluvi di etere che inebriano la sala dove ballerine depilate danzano nude fino al mattino. Qui Pitigrilli sembra quasi un epigono del Decadentismo, cui ha aggiunto velocità e ironia con aforismi e cinismi vari, senza mai trascurare le efficaci descrizioni di abiti e ambienti.
Insomma, c’è da divertirsi per gli appassionati del genere.

L’edizione in mio possesso (Bompiani, 1999) è arricchita da una prefazione di Umberto Eco che inquadra magistralmente meriti e limiti della narrativa di Pitigrilli.

Blog, Rassegna stampa

ARBITER

Dannunzianissimo articolo a me dedicato sulla rivista Arbiter di giugno 2020. Scatti dell’impareggiabile Jurek Kralkowski.

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RAZZISTI & RAZZIATORI

Cosa accomuna i razzisti e i razziatori di statue? La mancanza di cultura, che sempre e comunque genera mostri.
Tuttavia questi mentecatti non sono mai incriminabili quanto chi da decenni persegue coscientemente il disegno di schiacciare verso il basso il livello culturale medio, proprio al fine di ottenere questi (e altri) risultati: idioti razzisti da una parte, idioti iconoclasti dall’altra. Divide et impera. Tutti in un brodo indistinto di vuoti slogan in vuoti cervelli.

Mai come adesso è necessario continuare a leggere, a studiare e a pensare con la propria testa. Solo così non ci avranno mai, né gli uni né gli altri.

Dipinto di Joseph-Noël Sylvestre, Il Sacco di Roma del 410 d.C. (1890)

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TRATTATO DEL RIBELLE

Sì, lo so, tutti hanno letto il “Trattato del Ribelle” di Ernst Jünger. Molti l’hanno letto più di una volta, per altri addirittura – me, per esempio – è stato uno dei libri più importanti per la propria formazione.
Appunto con la convinzione di conoscerlo ormai a menadito, l’ho ripreso in mano un paio di mesi fa per trovare una frase adatta a un post che stavo buttando giù sulla libertà e la quarantena, ben sapendo che in queste 136 densissime pagine si trovano sempre le parole giuste. E niente, alla fine l’ho riletto tutto due volte, prendendo nuovi appunti e sottolineature (il testo è ormai illeggibile).

So bene che la caratteristica fondamentale di un’opera d’arte, di un “classico”, è quella di risultare sempre attuale, ma in questo preciso momento storico mi ha colpito diritto al cuore. Mi ha scosso, preso a schiaffi, caricato, ma nel contempo rasserenato. Inaspettatamente, devo ammetterlo.

Settant’anni fa Jünger aveva previsto con precisione visionaria l’evoluzione del mondo in cui ci troviamo adesso, dalla globalizzazione ai poteri sovranazionali, dalla dittatura sanitaria alla progressiva perdita di libertà dell’individuo con l’accondiscendenza dell’individuo stesso. Lungi da me fare una recensione completa di questo capolavoro – non ne avrei il tempo né la capacità – volevo solo focalizzare l’attenzione sulla bruciante attualità delle sue parole, che assumono una forza ancora maggiore se lette e meditate proprio in questo momento.

“È un fatto che i rapporti tra i progressi dell’automatismo e quelli della paura sono molto stretti: pur di ottenere agevolazioni tecniche, l’uomo è infatti disposto a limitare il proprio potere di decisione. Conquisterà così ogni sorta di vantaggi che sarà costretto a pagare con una perdita di libertà sempre maggiore”. Così, per fare un esempio.

“Il vero problema è piuttosto che una grande maggioranza NON vuole la libertà, anzi ne ha paura. Bisogna ESSERE liberi per volerlo diventare, poiché la libertà è esistenza – soprattutto è un accordo consapevole con l’esistenza, è la voglia – sentita come destino – di realizzarla”. E mi fermo qui.

Non importa quante volte l’abbiate letto, non importa se pensate di saperlo a memoria, ora, PROPRIO ORA, è il momento di rileggerlo.
Poi, se la sorte sarà con noi, ci incontreremo laggiù, nel bosco, e ne riparleremo lucidando le frecce dei nostri archi.

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DONNE & DROGHE

Rileggendo “I paradisi artificiali” di Baudelaire, il cui studio mi ispirò la scrittura dell’omonimo saggio scientifico-spirituale sulle droghe qualche anno fa, mi salta agli occhi la dedica a una donna, una misteriosa J.G.F.
Baudelaire stesso spiega nella prefazione il perché di questa scelta: le donne, in quanto esseri più vicini e aperti al mondo spirituale, sono le uniche in grado di elevare il materialismo verso un respiro più ampio rivolto al soprasensibile. Operazione mai priva di rischi, in quanto “la donna è la creatura che proietta l’ombra maggiore o la maggior luce”, come nell’ineguagliabile dipinto “La morfinomane” (1899) di Vittorio Matteo Corcos (uno dei miei pittori preferiti).

“Agli ingenui sembrerà strano e persino incoerente che un quadro delle voluttà artificiali sia dedicato a una donna, la fonte più comune delle voluttà naturali. Ma tant’è: come il mondo naturale penetra nel mondo spirituale e lo alimenta, contribuendo a formare così quell’ineffabile amalgama che chiamiamo individualità, allo stesso modo la donna è la creatura che proietta l’ombra maggiore o la maggior luce nei nostri sogni. La donna è fatalmente suggestiva, vive una vita tutta diversa dalla sua propria, vive spiritualmente nelle fantasie che suscita e feconda.”
(Baudelaire, “I paradisi artificiali”, 1860)

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AUTARCHIA DELLA BELLEZZA

La Bellezza non ha ancora salvato il mondo, ma forse salverà il nostro Paese, come ha già fatto in momenti ben più difficili dell’attuale. L’unico favore che ci chiede è di percepirla e amarla come non mai, e lo chiede a ogni singolo italiano.

Durante il lockdown in molti ripetevano la cantilena: “per salvare l’Italia, ai nostri nonni è stato chiesto di andare in guerra, a noi di rimanere a casa, un piccolo sacrificio al confronto”. Adesso, per salvare VERAMENTE l’Italia, è sufficiente visitare, acquistare, mangiare e bere il meglio che offre il mondo. Più che di sacrificio, si tratta in effetti di Piacere: vivere la propria vita scegliendo ogni giorno quanto di meglio l’umanità ha prodotto e produce tuttora. Non è un appello nazionalista, solo un invito a riscoprire la Bellezza che ci circonda. È ridicolo come in Italia il solo invitare ad acquistare i propri prodotti crei ancora un ingiustificato imbarazzo di fascistica memoria, a maggior ragione ora che va anche contro le osannate leggi del libero mercato. Usciamo da queste trappole e cerchiamo piuttosto di prendere coscienza di ciò che abbiamo intorno.

In questo momento ogni Paese sta chiedendo lo sforzo ai suoi abitanti di acquistare o viaggiare nazionale, sforzo che richiede veri e propri sacrifici in alcuni casi, come non vedere mai il mare né un dipinto rinascimentale, mangiare unicamente patate o passeggiare solo tra grattacieli. A noi non è invece richiesto alcun sacrificio perché abbiamo già tutto, e ci si offre inoltre l’opportunità di scoprire luoghi o prodotti del nostro Paese che ignoravamo. Approfittiamone.
Che poi tutto ciò attivi un circolo virtuoso a cascata sull’intera economia (e quindi su noi stessi), dalle aziende agroalimentari alle manifatturiere, passando per strutture ricettive e culturali, possiamo considerarlo un graditissimo effetto collaterale. Perché non abbiamo nemmeno bisogno di farlo in nome dell’economia, ma semplicemente per il Piacere, un valore ingiustamente demonizzato (insieme alla Libertà) durante l’emergenza sanitaria. Ora possiamo riscattarlo, aiutando tra l’altro l’Italia a rialzare la testa molto più di quanto possano fare mille manovre economiche.

Tuttavia ciò potrà accadere solo se OGNUNO di noi lo farà davvero, ovviamente nella misura delle sue possibilità. Chi di solito viaggia all’estero, quest’anno potrà visitare località italiane che ha sempre evitato per la ressa – che non ci sarà – di turisti sudaticci in calzoncini e infradito, (ri)scoprendo inoltre il piacere di un turismo più calmo e colto; chi invece non avrà la possibilità di viaggiare potrà comunque (ri)scoprire la Bellezza anche solo nei sapori, semplicemente consumando cibo italiano.
Non pensiamo quindi soltanto ai benefici per l’economia, ma soprattutto a quelli per lo Spirito. Trasformiamo questo momento di difficoltà in un’occasione irripetibile per approfondire la conoscenza della nostra cultura, della nostra storia, di ciò che compone ogni nostra singola fibra. La pseudo-cultura omologata che ci siamo lasciati imporre dalla globalizzazione è necessariamente un appiattimento al ribasso per un popolo che ha la massima capacità di percepire e gustare la Bellezza in tutte le sue declinazioni. Tale capacità non deriva di certo dal patrimonio genetico né dal livello di istruzione, ma si sviluppa in qualunque essere umano che nasce e vive in un Paese dove tutto è pervaso dalla Bellezza. Se negli ultimi anni l’abbiamo trascurata, ora è il momento di tornare a viverla con tutti i nostri sensi e il nostro spirito, offrendo oltretutto a quest’ultimo la possibilità di riemergere dall’abbrutimento materialistico attuale.

Pensate, abbiamo l’occasione di compiere qualcosa di positivo contemporaneamente in due ambiti di solito contrapposti: lo spirito e l’economia. Non capita tutti i giorni.