Vent’anni fa si scattavano ancora foto analogiche, come questi provini del 2002 di Virginio Favale. All’epoca mixavo con i vinili, guardando con sufficienza chi iniziava a convertirsi al digitale utilizzando gli orridi CD. Scrivevo i miei racconti con carta e penna, e quando dopo decine di cancellature e riscritture mi sembravano perfetti, li trasferivo di malavoglia sul pc per inviarli con la mail. Per non parlare delle lettere ad amici e amanti.
La cosiddetta Rivoluzione Digitale era in pieno corso, nessuno ormai dubitava più della sua prossima schiacciante vittoria, tuttavia molti di noi opponevano una disperata resistenza ad adeguarsi, aggrappandosi agli ultimi residui analogici. Percepivamo che il digitale avrebbe certamente reso tutto più semplice ma più finto, più veloce ma più superficiale, con milioni di dati facili da immagazzinare ma anche facili da dimenticare. Percepivamo che l’anima – di una foto, di una musica o di una lettera scritta con l’inchiostro – si sarebbe persa per sempre in miliardi di miliardi di asettici bit.
E adesso che ormai il digitale ha convertito alla sua sterilità ogni campo dell’umano, l’unica cosa che ci resta è cercare di riprovare ogni tanto quel tipo di emozioni, con il tempo e l’attenzione che richiedono, per ricordarci della vera natura di ciò che resta e di ciò che invece passa e vola via.