La fine dell’estate è una stagione a parte, seppure breve e dai contorni sfumati, è soave, elegante e non invadente, forse anche un po’ timida, una dea minore che in pochi riescono a venerare: saziate dalla crassa estate, le formichine ritornano alle loro tristi vite e non se ne curano, il loro sguardo è già posato sull’operoso autunno. Ma la dea minore intanto riscalda gentile come la luce del tardo pomeriggio che non è ancora tramonto, simile a un’estrema opportunità di cogliere ciò che non si è riusciti a cogliere, come le cicale superstiti che provano ancora a cantare incerte, in un tardivo – e probabilmente ormai inutile – tentativo di dare un senso alla loro esistenza.
La fine dell’estate scivola via col suo umore non ancora malinconico ma non più allegro, un sentire meno grossolano, per palati fini, per quelli che riescono ad accorgersi delle ultime occasioni offerte da divinità benevole, ma non le colgono, e voluttuosamente le guardano sparire nel mare.