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LA PELLE

Quando rileggi un libro dopo vent’anni hai l’impressione di farlo per la prima volta, perché sei un’altra persona. Ma è solo l’impressione, perché molto di quella scrittura è entrato a far parte di te.

Mi accorgo che, tra le altre cose, la mia penna è debitrice a Curzio Malaparte per il massimalismo, per il gusto dell’iperbole, per l’aspirazione a trasformare la crudezza in poesia e la poesia in crudezza.

Pochi come lui hanno saputo utilizzare la lingua italiana in tutta la sua meravigliosa complessità, una lingua che come nessun’altra può parlare dell’animo umano, dalle vette alle bassezze. Proprio quelle del popolo italiano alla fine della Seconda Guerra Mondiale, trasfigurato in quella Napoli che Malaparte ha vissuto, compreso e raccontato con maestria, così come ha magistralmente descritto l’ottusa incomprensione negli occhi sempliciotti dei “liberators” americani, sbarcati in quella bolgia dantesca gravida di tutte le nostre italiche contraddizioni. Che solo un italiano può forse riuscire a capire, e Malaparte, anche in questo, è stato arcitaliano. Nel bene e nel male.