Una straordinaria rilettura della Seconda Guerra Mondiale sulla base di documenti inediti che mostrano l’utilizzo diffuso di stupefacenti nella Germania nazista (e non solo), dalla popolazione ai soldati fino ai gerarchi e allo stesso Führer, in un regime che a parole si dichiarava contro ogni droga.
Grazie alla somministrazione generalizzata della metamfetamina Pervitin alle truppe, per esempio, la Germania inventò la guerra-lampo che le permise di conquistare la Francia in pochi giorni (inquietanti le testimonianze, con foto, dei soldati che non dormivano da due settimane), ma che nello stesso tempo portò a quel senso di onnipotenza delirante che la trascinò alla rovina.
Per la prima volta l’autore decifra con accuratezza i diari di Theo Morell, medico personale di Hitler, ponendoli in parallelo con l’avanzare del conflitto e dello stato psicotico del Führer stesso: da astemio e contrario a ogni droga (tanto da perseguitare i tossicodipendenti), in pochi mesi Hitler divenne consumatore di amfetamine, cocaina, derivati della morfina e altre combinazioni di stupefacenti che inventava il medico stesso e che doveva somministrare in dosi sempre maggiori, in un circolo vizioso che si avvitava di pari passo col procedere della disfatta.
Norman Ohler ci guida nelle parti più oscure della guerra con uno stile avvincente che fa assomigliare il libro più a un romanzo che a un saggio, ponendo l’attenzione su un aspetto del quale si deve tenere conto per comprendere a fondo tutti gli eventi e le atrocità di un periodo storico ancora pieno di interrogativi. Consigliato a chi ha già una buona conoscenza delle vicende e dei protagonisti della Seconda Guerra Mondiale.
Nel nostro viaggio di scoperta delle sostanze stupefacenti verso occidente, ora incontriamo l’alcol – droga del “Centro” per eccellenza – che appare nella storia dell’umanità all’apparire di Noè, capostipite dell’umanità post-atlantica.
“Ora Noè, coltivatore della terra, cominciò a piantare una vigna.Avendo bevuto il vino, si ubriacò e giacque scoperto all’interno della sua tenda.” (Genesi 9:20, 21)
In queste semplici parole della Bibbia troviamo la caratteristica fondamentale dell’azione dell’alcol sull’uomo: l’allontanamento dell’Io e la sua “riduzione” alle attività più basse e terrestri del corpo fisico che l’essere umano condivide con gli animali, qui rappresentate da Noè che dorme per terra spogliato dell’Io. Come capostipite della nuova umanità, Noè ne rappresenta anche i difetti: non appena riceve questo dono dagli dei, subito ne abusa, regredendo a una condizione animalesca. Ma perché gli dei avrebbero donato all’uomo una sostanza che può essere così pericolosa? L’hanno fatto per sancire il loro distacco dall’uomo a partire dall’uomo stesso. Infatti l’essenziale dell’alcol, come vedremo, è di rafforzare il modo in cui l’Io si sente dentro al corpo fisico, quindi di far sentire l’uomo maggiormente inserito nell’elemento terrestre. Ciò è stato di fondamentale importanza durante il lunghissimo “crepuscolo degli dei” – il Kali Yuga – nel quale le divinità si sono progressivamente allontanate dall’uomo, e l’uomo stesso a sua volta, anche grazie all’alcol, si è allontanato dalle divinità. Questo processo – conclusosi nel 1899 e durato più di cinquemila anni – è stato un’imprescindibile necessità per l’evoluzione dell’uomo verso un sentire razionale, autocosciente e indipendente, per mezzo del quale ha potuto iniziare a sviluppare la sua libertà.
Per queste ragioni, nonostante le numerose testimonianze della sua produzione e del suo consumo come birra e vino presso i Sumeri e gli Egizi, è facile intuire che l’alcol sarebbe entrato nel pieno della sua missione evolutiva con l’inizio del periodo greco-romano, quando l’uomo avrebbe cominciato a far evolvere l’anima razionale.
“L’alcol ebbe una certa missione nel corso dell’evoluzione dell’umanità: per quanto possa apparire singolare, esso ebbe il compito di preparare, per così dire, il corpo umano a venire staccato dalla connessione col mondo divino, perché potesse svilupparsi l’«Io sono» individuale. Infatti l’alcol ha l’effetto di precludere all’uomo il contatto col mondo spirituale, nel quale l’uomo si trovava in passato. Questo effetto, l’alcol, lo possiede tuttora. L’alcol non è stato introdotto invano nell’umanità. In futuro si potrà affermare nel pieno senso della parola che l’alcol ebbe il compito di attirare l’uomo giù nella materia, sì da renderlo egoistico, da portarlo al punto di esigere per sé il proprio Io, di non metterlo più al servizio di tutto il proprio popolo. Così l’alcol ha reso all’umanità un servizio opposto a quello dell’anima di gruppo: ha tolto agli uomini la facoltà di sentirsi uniti in un tutto nei mondi spirituali.” (R. Steiner, O.O. 103 “Il Vangelo di Giovanni”)
Furono appunto gli antichi Greci ad avere come missione storica quella di far entrare coscientemente l’uomo sulla Terra, rendendolo indipendente dalle divinità e responsabile delle proprie azioni tramite l’intelletto. L’antico Greco non cercava infatti una sostanza che lo riportasse verso l’alto, che gli facesse riallacciare i legami con le divinità (come abbiamo visto per l’antico indiano che invece, tramite l’oppio o la cannabis, voleva tornare in connessione con quel mondo spirituale progressivamente oscurato dal Kali Yuga), ma appunto una sostanza che lo aiutasse a prendere possesso del suo corpo, della materialità terrestre. Consci dell’importanza di tale missione, i Greci attribuirono al vino un significato religioso, celebrandolo nel culto dionisiaco, ultimo dono dell’antica saggezza dei misteri. Le celebrazioni dionisiache non erano, almeno in principio, semplici orge sfrenate (come siamo abituati a considerarle a causa dalla loro degenerazione in baccanali di epoca tardo-romana), ma vere e proprie cerimonie religiose nelle quali gli effetti del vino erano considerati una sorta di “sfida” per l’Io e un mezzo per aumentarne il dominio sulle forze terrestri. Nel culto di Dioniso i partecipanti dovevano imparare ad acquisire sempre più controllo sul proprio “animale interiore” (il corpo astrale): venivano infatti sacrificati animali come il toro, simbolo delle forze animali interne all’uomo, e venivano eseguiti esercizi per allenare l’Io a controllare il corpo e l’anima, “vincendo” gli effetti del vino ingerito. Dioniso viene sempre raffigurato con il bastone rituale, il tirso, con il quale “tiene a bada” gli animali che lo circondano – immagini degli istinti, delle brame, delle passioni – alle quali l’uomo oppone la forza dell’Io rappresentata dal tirso posto in verticale, quale immagine dell’organizzazione dell’Io. Analogamente, durante i cenacoli dei filosofi veniva sempre assunto vino allo stesso scopo, così come, per esempio, riportato da Platone nel “Simposio”, dove Socrate – prototipo dell’uomo pensante moderno – è noto per riuscire a mantenere il controllo assoluto del proprio Io sull’astralità scatenata dal vino, e per questo considerato come un modello dai discepoli.
Con il procedere dei secoli il culto dionisiaco, che nel frattempo era passato ai Romani come culto di Bacco, degenerò al punto tale che in epoca imperiale si ebbe una completa inversione dei suoi intenti originari: durante i baccanali l’assunzione di vino non era più diretta ad acquisire maggior controllo sull’astralità, ma al contrario si desiderava lasciarsi travolgere da istinti, brame e pulsioni mettendo fuori uso il controllo dell’Io. Il tutto è peraltro riscontrabile nell’iconografia successiva, dove Bacco non è più rappresentato, come Dioniso, vigile ed eretto col tirso in pugno, ma come un rubicondo obeso che si lascia trasportare da una corte di animali, satiri e baccanti: il tirso è scomparso e con lui l’Io. Ciò accadde perché, dopo il messaggio del Cristo, l’alcol aveva virtualmente compiuto la sua missione evolutiva, almeno nel mondo romano.
“Ma proprio nella stessa epoca in cui l’umanità era stata più profondamente impigliata nell’egoismo ad opera dell’alcol, apparve sulla scena la forza più possente, quella che diede all’uomo l’impulso più intenso per ritrovare il contatto con l’universo spirituale. Da un lato l’uomo doveva discendere fino all’ultimo gradino per divenire autonomo, dall’altro doveva giungere la forza potente, capace di ridare l’impulso per ritrovare la via verso il tutto.” (R. Steiner, O.O. 103, “Il Vangelo di Giovanni”)
Nei Vangeli i riferimenti al vino sono numerosi, si pensi alle nozze di Cana, ma è con l’Ultima Cena che si chiude anche simbolicamente il ruolo evolutivo dell’alcol: il vino è diventato il sangue del Cristo, dunque l’uomo, per proseguire nella sua evoluzione, non deve più rivolgersi al vino ma al sangue della divinità, ovvero deve perseguire la riunione cosciente col mondo spirituale. Il Cristo ha così offerto una nuova strada per allacciare i contatti col mondo spirituale come libera scelta di un uomo ormai indipendente e sempre più cosciente di se stesso. Tuttavia, vuoi per gli influssi arimanico-luciferici (“Quello che è giusto per un’epoca, se viene esercitato in un’epoca successiva diviene arimanico o luciferico” R. Steiner, O.O. 193 “Sull’incarnazione di Arimane”), vuoi perché sia il Kali Yuga che il periodo greco-romano erano ancora in pieno corso, l’alcol aveva ancora tanta strada da percorrere accanto all’uomo, sempre come strumento di recisione dei contatti col mondo spirituale.
In questa sede non si può approfondire l’interessantissima storia dell’alcol (per cui rimando, come sempre, alla lettura del mio saggio “Paradisi Artificiali – Le droghe e l’uomo da un punto di vista scientifico-spirituale” edito da Novalis), ma bisogna almeno accennare al suo utilizzo, più o meno consapevole, da parte dell’uomo europeo come arma di distruzione di intere civiltà. Le strutture sociali dei Pellirossa, degli Aborigeni, dei popoli del Sudamerica o del Centrafrica, erano ancora felicemente basate sul rapporto diretto con il mondo spirituale, dunque l’introduzione improvvisa dell’alcol – che non apparteneva alla loro storia evolutiva – le fece collassare in pochi decenni, facilitandone la conquista. Del resto, ogni popolazione che abbia un’articolazione diversa dell’organizzazione dell’Io rispetto agli europei, tollera di meno e gestisce peggio l’assunzione di alcol, come per esempio gli orientali, che abbiamo visto essere più affini alle droghe definite “luciferiche”. L’alcol, come droga del Centro, possiede entrambe le caratteristiche luciferiche e arimaniche, ma queste ultime sono decisamente preponderanti, al contrario dell’ecstasy esaminata nello scorso articolo.
Come già accennato, gli effetti dell’alcol sono dovuti alla compromissione dell’organizzazione dell’Io, la sfera più alta dell’essere umano deputata al controllo e allo sviluppo dei corpi costitutivi inferiori. Per compiere queste attività, l’Io si serve del calore e dello zucchero veicolati dal sangue, ed è proprio su questi elementi che agisce l’alcol: già dopo il primo bicchiere il battito cardiaco e la pressione sanguigna aumentano a causa della ritrazione del corpo astrale nel corpo fisico tramite un tenace legame agli organi ritmici (cuore e polmone). Ciò provoca una vasodilatazione periferica che dà l’impressione di un aumentato calore, mentre in realtà non fa altro che disperdere il calore del corpo e abbassarne la temperatura. Successivamente l’alcol, grazie ai suoi metaboliti tossici, inibisce la produzione di zucchero nel fegato abbassando così la glicemia. A questo punto l’Io, trovandosi privato dei suoi mezzi operativi – zucchero e calore – e con la sua organizzazione ormai disarticolata, viene lentamente “espulso”, mentre il corpo astrale rimane contratto nel fisico. Da notare che, a differenza delle droghe esaminate finora, per la prima volta assistiamo a una contrazione del corpo astrale e non a una sua espansione: siamo di fronte a un effetto propriamente arimanico, mentre quello luciferico consiste nell’iniziale senso di leggerezza e sollevazione dovuto alla progressiva espulsione dell’Io. Quest’ultima è facilmente verificabile dalla progressiva perdita a ritroso di tutte le facoltà che ha appreso l’Io durante l’incarnazione terrestre: dapprima si ha confusione e compromissione del pensiero logico-razionale, poi della memoria e del linguaggio (l’ubriaco non riesce ad articolare le parole), dell’abilità a camminare (l’ubriaco barcolla) e infine, se si prosegue nell’assunzione, si perde la postazione eretta, prima conquista dell’Io nella vita. In questo modo il consumatore si trova tagliato fuori dal mondo spirituale e dalla propria essenza spirituale stessa (l’Io) che non può più esercitare il controllo sul corpo astrale, rivelando il lato squisitamente arimanico della sostanza. Il corpo astrale, letteralmente “incatenato” al corpo fisico, si lascia sopraffare da tutte quelle forze astrali che in condizioni normali erano tenute a bada dall’Io: piacere, dispiacere, simpatia, antipatia, pianto, riso, ma anche pulsioni più basse come brame, passioni irrefrenabili, istinti animaleschi, fino alle profondità delle forze eteriche (metabolismo, temperamento) e fisiche (peso, forza di gravità).
Dopo tutto questo “folleggiare” del corpo astrale, il giorno dopo arrivano puntuali i postumi della sbornia, il cosiddetto “hangover”: mal di testa pulsante, bocca secca, nausea accompagnata eventualmente da vomito, dolori muscolari, irritabilità, sudorazione, stanchezza, esaurimento. Questi effetti sono imputabili fisicamente al basso livello di zucchero nel sangue (che impedisce ulteriormente all’Io di riprendere il controllo della situazione) e all’accumulo di metaboliti tossici, soprattutto a livello del capo.
Dopo una sbornia, soprattutto se ripetuta nel tempo, per l’Io e il corpo astrale è sempre più difficile ripristinare una situazione di normalità, perché il corpo fisico e gli organi come il fegato, il cervello o il sistema nervoso, sono fisicamente danneggiati e non offrono più le stesse connessioni di prima, per cui è difficile per loro tornare a penetrarli come avviene in condizioni normali. Si può dire che mediante l’abuso di alcol, soprattutto se cronico, si viene a creare una configurazione “alternativa” dei corpi costitutivi che non è più quella originaria dell’Io, ma che nondimeno si confà maggiormente a un essere umano costantemente intossicato dall’alcol. Ciò spiega anche perché, se si torna a bere alcol durante un hangover, i sintomi spiacevoli – sia fisici che animici – tendono a sparire: l’Io che tentava di ripristinare lo status-quo è stato di nuovo estromesso e in sua vece è tornato l’alcol a determinare le interrelazioni tra i corpi costitutivi. Così nell’alcolista cronico si instaura quel circolo vizioso in cui il fisico continua ulteriormente a danneggiarsi e con lui le connessioni tra i corpi costitutivi stessi.
In particolare è il fegato a subire gli effetti distruttivi dell’alcol che a lungo andare, oltre a danneggiarlo fisicamente con la degenerazione grassa e la cirrosi, provoca un rilascio delle sue forze eteriche. Ciò porta alla tipica forma di “depressione epatica” dove l’alcolista si sente intrappolato nel suo passato, privo di volontà per relazionarsi al futuro, fino ad arrivare alla paura della vita stessa, con sensi di colpa che eventualmente possono portare al suicidio. Il rilascio di forze eteriche dal fegato porta anche a un altro fenomeno tipico, il delirium tremens. Come vedremo più nel dettaglio nell’articolo sugli allucinogeni, il rilascio di forze eteriche dal fegato provoca vere e proprie allucinazioni e condizioni di psicosi. A quel punto il ritorno a una condizione di normalità è pressoché impossibile: l’alcol ha fatto scendere così tanto l’uomo nella fisicità da avergli definitivamente precluso ogni possibilità di contatto con lo spirituale.
Su questa linea il nostro viaggio di scoperta delle droghe ci farà approdare nel prossimo articolo in Occidente, dove incontreremo la più arimanica di tutte le sostanze stupefacenti, i cui effetti appena descritti sono portati all’estremo: la cocaina e le sue sorelle sintetiche amfetamine.
Tra una settimana il mio romanzo “Il sole a occidente” tornerà a Venezia, sua patria. E lo farà in una delle librerie più belle d’Italia (e del mondo, a mio avviso): dalle 16,00 alle 18,30 sarò presente alla libreria “Acqua Alta” per una chiacchierata, un firmacopie e un immancabile bicchiere di prosecco, parlando di Venezia, di decadenza e d’eleganza.
Partendo dal lontano Oriente, il nostro percorso di conoscenza scientifico-spirituale delle sostanze stupefacenti si è ora avvicinato al Centro, dove incontriamo come prima sostanza caratteristica l’ecstasy. Si tratta di una droga recentissima entrata prepotentemente nell’evoluzione dell’umanità durante gli ultimi quarant’anni, e che non può di certo vantare una storia millenaria come le già esaminate oppio e cannabis. Allora cosa l’ha resa degna di una trattazione accanto a tali blasonate cugine? Innanzitutto la sua larga diffusione che l’ha portata ad essere la quarta droga più consumata nel mondo, nonché la sua assoluta unicità di azione che non trova riscontro in nessun’altra sostanza: l’ecstasy è la droga dell’equilibrio, della completezza, del “ritorno a casa”. Equilibrio perché in questa sostanza le caratteristiche luciferiche e arimaniche raggiungono un bilanciamento perfetto – del resto stiamo parlando di una droga del Centro – convivendo in un’atmosfera che potremmo definire di collaborazione e non di contrapposizione; completezza perché nei suoi effetti sono in un certo senso “riassunti” gli effetti di tutte le sostanze stupefacenti conosciute dall’umanità, dalla stimolazione cocainica al deliquio oppiaceo, dall’espansione di coscienza lisergica all’amore universale della cannabis; il “ritorno a casa” perché in nessuna delle droghe appena citate è così forte la sensazione di essere tornati dove tutto è iniziato, nel giardino dell’Eden, in quello stato di purezza antecedente al “peccato originale” che caratterizzava l’umanità della prima epoca Lemurica. Di quest’ultima l’ecstasy evidenzia soprattutto la condivisione e la vicinanza animica con gli altri esseri del creato, in una sorta di coscienza collettiva consapevole dell’amore e della saggezza che governano il mondo, cosa ovvia per l’uomo di quelle epoche: non a caso il primo nome in uso per l’ecstasy è stato proprio “Adam”.
Di certo i primi ricercatori e psichiatri che la utilizzarono non avevano conoscenze iniziatiche, ma battezzandola come Adam sicuramente percepirono il suo forte richiamo a una condizione primordiale dell’umanità. L’appellativo di “ecstasy” cominciò a entrare in uso quando tale sostanza si identificò sempre di più – in un certo senso banalizzandosi – con l’ambiente delle discoteche come la “droga per ballare”. Tuttavia questo è un altro elemento che la ricollega all’epoca Lemurica, quando per l’uomo esisteva la danza come vitale e unica forma artistica con la quale seguiva la musica delle sfere, il ritmo della vita, dei pianeti, della natura e degli dei che era ancora in grado di percepire: l’uomo danzava in una coscienza collettiva senza soluzione di continuità tra la propria individualità e quella degli altri uomini, tra sé e la natura, e soprattutto tra la propria coscienza e quella divina, con la quale ancora formava un tutt’uno.
L’ecstasy si propone lucifericamente proprio di far sperimentare quello stato paradisiaco per il quale l’uomo ha sempre conservato inconsciamente una forte nostalgia e, per rendere l’uomo attivo e lucido in questa esperienza, stavolta Lucifero “chiama in aiuto” Arimane, con il compito di trattenere l’Io del consumatore sulla Terra, nel qui ed ora insieme agli altri uomini, senza permettergli di perdersi nei mondi astrali come accade per l’oppio e la cannabis (è chiaro che anche in questa condizione – come per tutte le droghe – l’Io resta un semplice spettatore degli effetti che produce la droga sui suoi corpi costitutivi, conservandone certamente il ricordo una volta che l’effetto è svanito, ma senza aver acquisito alcuna evoluzione data dal suo attivo operare).
Per comprendere il peculiare meccanismo di azione dell’ecstasy sui corpi costitutivi, bisogna prima dare uno sguardo alle entità vegetali da cui deriva, nonché alla sua storia.
A differenza delle droghe fin qui esaminate, l’ecstasy non è una sostanza completamente naturale ma semisintetica, in quanto alla molecola di partenza, il “safrolo”, viene aggiunta chimicamente la parte amminica. Il safrolo è un composto aromatico tossico presente in diversi vegetali anche di uso alimentare, come la noce moscata, lo zafferano, il pepe nero e il cacao. È interessante notare come questo nucleo safrolico sia il responsabile degli effetti luciferici di espansione dei corpi superiori da parte dell’ecstasy – che possiamo quindi chiamare a buon diritto una “spezia per l’anima” – mentre la parte aggiunta sinteticamente la rende simile ai neurotrasmettitori come l’adrenalina e la dopamina, ed è la responsabile degli effetti arimanici di veglia e iperattività “terrestre” dovuti al maggior inserimento di una parte dei corpi superiori nel corpo fisico.
La sintesi dell’ecstasy a partire dalla noce moscata è dovuta al chimico tedesco Fritz Haber nel 1898. Brevettata dalla Merck nel 1912, ne fu tentato l’impiego come anoressizzante e stimolante per le truppe della Grande Guerra, con scarsi risultati. In seguito alla sconfitta della Germania, l’ecstasy e molte altre sostanze brevettate vennero consegnate agli Stati Uniti come bottino di guerra, e così l’ecstasy lasciò il suo luogo di nascita nel Centro per spostarsi in Occidente, cadendo nell’oblio per qualche decennio. Chi la riportò in vita fu il valente biochimico e farmacologo californiano Alexander “Sasha” Shulgin, di padre russo e madre statunitense (curiosamente anche nella sua persona si incontravano l’Oriente e l’Occidente), che a partire dagli anni ’60 si occupò di sintetizzare e provare su se stesso più di duecento sostanze psicoattive – tra le quali l’ecstasy – dopo l’incontro karmico con la mescalina che cambiò per sempre la sua esistenza.
“Quel pomeriggio compresi che il nostro intero universo è contenuto nella mente e nello spirito. Noi possiamo scegliere di non accedervi, possiamo addirittura negarne l’esistenza, ma nondimeno esso è dentro di noi, ed esistono sostanze chimiche in grado di favorirne l’accesso”. (A. Shulgin, “Dr. Ecstasy”, 2006)
L’ecstasy fu così introdotta e utilizzata estensivamente in psichiatria soprattutto in California che, come vedremo nell’articolo sugli allucinogeni, si configura come il vero e proprio “centro misterico” della modernità.
Parallelamente iniziò il suo uso voluttuario che le fece riattraversare l’oceano per trovare come primo approdo l’isola di Ibiza degli anni’80, dove si unì in un legame felice e indissolubile con la prima house-music: sonorità tribali ancestrali e danza, uniti a uno stato interiore di amore universale, nell’isola da sempre associata a felicità e spensieratezza: il Paradiso Perduto era ritrovato. Proprio grazie a questa potente illusione luciferica – basata però su qualcosa di reale e condiviso, e non su un paradiso interiore e immaginario come quello dell’oppio – l’ecstasy si è poi diffusa in tutto il mondo, rimanendo associata all’ambiente delle feste, delle discoteche e dei rave-party, ovunque si potesse creare una comunità basata sull’empatia e l’amore (artificialmente indotti, come vedremo) a ritmo di musica. Per comprendere veramente l’effetto dell’ecstasy non si può mai prescindere dalla relazione costante con gli altri consumatori.
Come abbiamo visto per la cannabis, l’effetto “sociale” è ottenuto da un parziale distacco del corpo astrale che viene disposto dalla droga nella configurazione dell’innamoramento, ancora più marcata nel caso dell’ecstasy. Anche in questo caso, rimanendo il corpo astrale nelle vicinanze del consumatore, si verifica una sorta di “fusione” della parte fluttuante del proprio corpo astrale con quello dei consumatori nello stesso stato, ottenendo l’empatia e la vicinanza animica. A differenza di oppio e cannabis, che provocano solo l’allontanamento dei corpi superiori con conseguente diminuzione dello stato di veglia e relativa confusione, una parte dei corpi superiori non solo è trattenuta dall’ecstasy, ma inserita ancora più tenacemente nel corpo fisico (il contemporaneo effetto amfetaminico – e dunque arimanico – cui si accennava in precedenza). Ne consegue che il consumatore può sperimentare in stato di veglia il contatto con l’amore universale e soprattutto con le altre anime, in uno stato di beatitudine che però, come l’innamoramento indotto, non sorge per un moto dell’Io ma è solo un mero effetto della sostanza. Poiché l’assunzione di ecstasy è paragonabile a un vero e proprio metodo di iniziazione del passato (per motivi che non ho modo di spiegare in questa sede, ma per i quali rimando come sempre alla lettura del mio saggio “Paradisi artificiali” edito da Novalis), si assiste a un’attivazione precoce del fiore di loto a dodici petali, i cui sei petali ancora inattivi vengono messi in movimento dalla droga e non tramite l’esercizio e l’evoluzione individuale.
A questo punto è facile comprendere quali siano i postumi dell’assunzione di ecstasy: a livello fisico si ha una deplezione dei neuroni serotoninergici, data la notevole quantità di serotonina che viene liberata d’un colpo dalla sostanza, con conseguenti stati depressivi e psicotici; a livello eterico si assiste a un esaurimento delle forze dovuto alla super-attività indotta dalla parte amfetaminica, che innalza artificialmente la soglia di resistenza fisica, stanchezza, fame e sonno; a livello animico i sentimenti di empatia e gioia si trasformano nel loro opposto di tristezza, ostilità verso il prossimo e l’ambiente, paura, chiusura in se stessi. A ciò contribuisce la deformazione, che può essere permanente, del fiore di loto non correttamente attivato, come già descritto da Rudolf Steiner ne “L’iniziazione” (O.O. 10) riguardo a metodi iniziatici non corretti, dei quali l’ecstasy rappresenta un esempio:
“La disciplina occulta può anche dare speciali indicazioni che accelerano la maturazione di questo fiore di loto, e anche qui la formazione regolare di quest’organo sensorio dipende dallo sviluppo delle qualità sopracitate (per esempio con i Sei Esercizi, N.d.R.). Se non si provvede a questo sviluppo, l’organo risulterà deformato. In tal caso, con lo svilupparsi di una certa chiaroveggenza, le suddette qualità possono volgersi al male, anziché al bene. L’uomo può diventare particolarmente intollerante, pauroso, contrario al suo ambiente. Ad esempio può arrivare a sentire i sentimenti delle altre anime, e di conseguenza allontanarsene e odiarle. Può giungere a tal punto che, per il freddo che gli invade l’anima di fronte a opinioni opposte alle sue, non sia in grado di ascoltarle, assumendo un atteggiamento ostile.”
Inoltre l’Io è costretto a seguire il corpo astrale nella sua espansione divenendo anch’esso periferico, e nel contempo è obbligato a “guardare” l’altra parte del corpo astrale connettersi ancora più energicamente ai corpi fisico ed eterico. Questa perdita di centralità sul momento risulta piacevole all’Io che viene così “messo da parte”, ma tornando alla vita reale si traduce in una sempre maggiore mancanza di iniziativa, instabilità e perdita di contatto con la realtà. A tutto questo bisogna aggiungere l’evocazione artificiale di stati di coscienza precedenti dell’umanità che porta a un progressivo dissolvimento dell’Io nel tutto e, in particolare per un uso ripetuto, a compiere in definitiva un “passo indietro” nell’evoluzione: le esperienze di apertura, empatia, calore, simpatia e amore, sperimentate sotto l’effetto della sostanza, non potranno mai diventare qualità dell’Io perché non sono state acquisite con l’esercizio, lo sforzo e l’errore, e oltretutto si riferiscono a uno stato precedente e non più ripetibile dell’evoluzione (bisogna però sottolineare l’indubbia “valenza karmica” che potrebbe avere anche una singola assunzione di tale sostanza, e sarebbe da riflettere sulla natura libera o non libera degli incontri e dei legami interumani che si formano grazie a essa, come ampiamente riportato in letteratura).
La molecola originaria dell’ecstasy ha inoltre subito negli anni svariate variazioni molecolari ad opera dei laboratori clandestini dove viene sintetizzata e, nella forma di “pasticca” in cui giunge al consumatore finale, è spesso associata ad altre sostanze sintetiche, dagli allucinogeni ad altre metamfetamine delle quali non si conosce mai la vera natura. Ciò rende difficile non solo lo studio degli effetti a lungo termine, ma anche l’intervento sanitario nei casi di sovradosaggio o reazioni avverse, prima fra tutte l’ipertermia maligna, spesso fatale. Il tutto è ulteriormente complicato dalla contemporanea assunzione da parte del consumatore di altre sostanze stupefacenti, tra le quali è sempre presente l’alcol, che amplifica a dismisura sia gli effetti disforici che la severità dei postumi.
Proprio l’alcol, droga onnipresente e tipica del percorso evolutivo dell’uomo del Centro, sarà l’argomento di studio del prossimo articolo.
“Come ogni anno, il martedì grasso si era presentato sotto i migliori auspici nonostante le condizioni fisiche seriamente minate dai giorni precedenti. Tuttavia, man mano che si capitolava verso la conclusione, l’inquietudine negli animi cresceva. Quando l’ultima nota dell’ultima canzone dell’ultima festa si abbatteva come una scure sull’intero Carnevale, l’inquietudine si trasformava in disperazione e si era presi da una frenesia – a volte patetica – di prolungare con ogni mezzo quell’agonia. Allora si finiva in qualche festa che si trascinava ormai disfatta o si cercava di radunare nella propria abitazione qualche altro disperato, per vivere le prime ore delle Ceneri come se il Carnevale non fosse mai finito. Tuttavia gli animi non avevano più la stessa leggerezza di poche ore prima e si spalancava sotto di loro un abisso senza speranza.”
(tratto da “Il sole a occidente” parte II, capitolo II)
(in foto l’isola di San Michele, il cimitero di Venezia, la sera delle Ceneri di qualche anno fa)
“Così, mentre ti aggiri per questi labirinti, non sai mai se insegui uno scopo o fuggi da te stesso, se sei il cacciatore o la sua preda.”
Ho sempre ritenuto che gli esiti più felici in letteratura si raggiungono quando un poeta – ma un poeta vero, di quelli che possiedono singolari connessioni tra i sensi, il cuore e la mano che scrive, com’era Iosif Brodskij – crea della prosa. Poi quando questa prosa è ispirata e dedicata a una città come Venezia (non è forse anch’essa una poesia in prosa?) si toccano le vette più alte.
“Fondamenta degli incurabili” non è un romanzo, né un trattato. E’ una breve raccolta di suoi scritti e divagazioni, in apparenza slegati tra loro, dei suoi esili veneziani negli anni ’70 e ’80. Al netto di qualche ingenua infatuazione da colto straniero – peraltro dichiarata – il libro è un piccolo gioiello che non può assolutamente mancare tra le pietre preziose dei malati di Venezia. Gli “incurabili”, appunto, per i quali “una partenza da questa città sembra ogni volta definitiva; lasciarla è un lasciarla per sempre.”
Leggendo Brodskij, un incurabile può ritrovare suoi pensieri e sensazioni, a volte con sovrapposizione totale, perché tutti gli incurabili hanno il privilegio di attingere allo stesso pozzo di emozioni che Venezia dischiude per loro. Poi per fortuna esistono fuoriclasse come Brodskij che le traducono in parole, a volte con un sapore profetico: “Vorrei far notare che l’idea di trasformare Venezia in un museo è tanto assurda quanto quella di rianimarla con l’immissione di sangue nuovo. Intanto, quello che passa per sangue nuovo è sempre, alla fine, orina vecchia. E poi, questa città non ha gli attributi per essere un museo, essendo lei stessa un’opera d’arte, il capolavoro più grande che la nostra specie abbia prodotto. Non rianimi un dipinto, tantomeno una statua: li lasci in pace, li difendi contro i vandali – contro orde di cui tu stesso, forse, fai parte.”
Con l’articolo dedicato all’oppio abbiamo iniziato il nostro viaggio nello spazio e nel tempo alla scoperta delle sostanze stupefacenti e dei loro rapporti soprasensibili con l’essere umano, rapporti che ne hanno influenzato l’evoluzione fino a segnare, in alcuni casi, vere e proprie epoche o precisi confini geografici e antropologici.
Al pari dell’oppio, la cannabis si situa decisamente a Oriente per gran parte della sua storia, comparendo anch’essa per la prima volta in Asia Centrale durante il periodo paleo-indiano, e quindi anch’essa sotto l’influsso pieno dell’entità luciferica. Come abbiamo visto, il proposito di queste sostanze è di far regredire l’uomo a una condizione evolutiva precedente, allontanandolo dalla percezione chiara e cosciente del mondo materiale verso un’illusoria – e ormai superata – percezione sognante dei mondi spirituali. Per raggiungere tale effetto, questo genere di droghe agisce sui corpi costitutivi dell’uomo “staccando” i corpi superiori (astrale e Io) da quelli inferiori (eterico e fisico) e ricreando così le condizioni che si verificano con il sonno notturno. La differenza con quest’ultimo consiste nel permanere comunque della coscienza – seppure attutita – che permette al consumatore di sperimentare da “sveglio” il contatto coi mondi spirituali che normalmente avviene di notte, nonché la sensazione beatificante di essere tornato nelle braccia delle divinità, come avveniva in epoche remote.
Se però l’oppio ricrea fedelmente la configurazione dei corpi costitutivi del sonno notturno, la cannabis presenta importanti differenze che si traducono in risultati diversi nel consumatore, pur rimanendo nell’ambito luciferico di azione. Con la cannabis otteniamo un effetto più allegro ed euforico, e constatiamo la sua fondamentale caratteristica di “socialità”, del tutto assente nell’oppio. Ciò è perfettamente riassunto dalle parole del filosofo Walter Benjamin, il quale negli anni ’20 eseguì, in compagnia di altri intellettuali, dei veri e propri esperimenti sulle modificazioni della psiche provocate dall’assunzione di hashish e di altre droghe. In un resoconto del 1927, riportato nel libro “Sull’hashish”, Benjamin scrive:
“Illimitata benevolenza. Si dischiude il buon «carattere». Tutti gli astanti assumono la gamma del buffo. Al tempo stesso ci si compenetra con la loro aura. Nel sorridere ci si sentono spuntare delle alucce. Sorridere e svolazzare affini”.
Come sono diversi questi effetti rispetto all’oblio e al solitario distacco emotivo provocato dall’oppio! Troviamo innanzitutto l’illimitata benevolenza verso gli altri esseri umani, proprietà che delinea la cannabis come la droga per eccellenza della “socialità”, venendo infatti consumata in gruppo, sia nei riti più antichi che ai giorni nostri. Tale benevolenza è indotta dalla particolare configurazione in cui la cannabis dispone il corpo astrale (per una trattazione completa rimando, come sempre, al mio saggio “Paradisi Artificiali” edito da Novalis) che corrisponde a quella dell’innamoramento, ovvero quando in un essere umano si accendono sentimenti – e sottolineo la parola “sentimenti”, perché qui siamo in esclusivo ambito astrale – di amore verso il prossimo. In questo modo il corpo astrale non si allontana eccessivamente dall’individuo (come avviene per l’oppio), ma rimane nelle sue vicinanze, seppur molto allentato, e ciò porta un’ulteriore rinforzo dell’empatia verso l’individuo che consuma la sostanza durante lo stesso rituale di gruppo: i corpi astrali dei consumatori allentati e “svolazzanti” hanno la possibilità di fondersi in parte l’uno con l’altro, aumentando la sensazione di comunanza e di condivisione dei sentimenti (è ciò che Benjamin descrive come compenetrazione con “l’aura” – ovvero il corpo astrale – degli astanti). L’allentamento del corpo astrale porta anche all’altro effetto: l’ilarità e le risate immotivate caratteristiche della cannabis (il “buffo” descritto da Benjamin). Infatti, come spiega nei dettagli Rudolf Steiner durante una conferenza a Berlino del 1910 (O.O.59 “Ridere e piangere”), “l’espressione dell’allargarsi del corpo astrale è nel corpo fisico il ridere o il sorridere”.
Arrivati a questo punto è fondamentale evidenziare, ancora una volta, che nella genesi di tutte queste sensazioni, sentimenti, emozioni, l’Io non ha alcun ruolo attivo, è solo uno “spettatore”. Anche in questo caso – come per tutte le droghe – non è grazie a un impulso cosciente dell’Io che si verificano i cambi di configurazione dei corpi costitutivi responsabili degli effetti rilevabili nel fisico, ma è la sostanza stessa a farlo, agendo quindi al posto dell’Io. Per esempio, semplificando molto, quando ci troviamo davanti a una situazione buffa, è l’Io che fa “allargare” il corpo astrale scatenando poi il riso, mentre con l’assunzione di cannabis è la sostanza che si occupa di far compiere questo movimento al corpo astrale che produrrà poi il riso, per la maggior parte delle volte appunto immotivato. Lo stesso vale per la benevolenza verso il prossimo generata dalla “configurazione dell’innamoramento” di cui è responsabile la cannabis, e non già i sentimenti che l’Io prova verso quella determinata persona. È ovvio che, laddove esistano già tali sentimenti, la cannabis agisce amplificandoli, ma sempre in maniera artificiale. Ci occuperemo più in dettaglio di questo effetto, nonché di quello della parziale “fusione” dei corpi astrali, nell’articolo dedicato all’ecstasy.
Se nella prima parte del suo effetto la cannabis si discosta parecchio dall’oppio, nella seconda parte (o per dosi più alte, o per un consumo cronico) si avvicina al suo “fratello maggiore”, inducendo nel consumatore uno stato soporifero e sognante di isolamento che spesso si conclude nel sonno.
Anche in questo caso le ore successive al termine degli effetti psicotropi sono le più difficili, perché i corpi costitutivi devono tentare di ricostituire le corrette connessioni tra loro (soprattutto tra i corpi superiori e gli inferiori) che sono state danneggiate dall’assunzione della sostanza. Inoltre l’Io si trova in uno stato di esaurimento, stanchezza e impossibilità di dare compimento ai propri atti di volontà come conseguenza dell’inusuale sovrabbondanza di sensazioni e percezioni cui ha dovuto far fronte nell’ebbrezza appena trascorsa.
Ciò porta a un “effetto rebound” di nervosismo, irrequietezza e paura: i corpi costitutivi del consumatore hanno perso la loro stabilità, le loro interrelazioni sono parziali e precarie, e questo arreca un sentimento di progressiva insicurezza e vuoto interiori (sentire), pensieri confusi e sognanti (pensare), perdita della volontà (volere). È facile capire quanto questi effetti siano più nocivi tanto più l’età del consumatore è bassa. Infatti durante l’adolescenza il corpo astrale dovrebbe gradualmente sviluppare la sua struttura tramite l’interazione con i sentimenti che si presentano nella vita, mentre con l’uso ripetuto di cannabis non solo viene ostacolato questo processo, ma addirittura invertito. Così l’Io del consumatore cronico rimane uno spettatore passivo, impossibilitato a interagire con i reali sentimenti di amore o sofferenza che il corpo astrale dovrebbe sperimentare durante l’adolescenza. Allo stesso modo è facile capire perché proprio in quell’età ci sia il maggior uso e abuso di cannabis, per quell’inconscio desiderio di sfuggire all’inevitabile discesa definitiva nella materia che porterà all’età adulta. È tipico di chi è stato consumatore cronico di cannabis durante l’adolescenza di conservare particolari connotati del carattere adolescenziale anche nell’età adulta, a causa dell’interruzione o del turbamento del naturale processo di evoluzione nel momento in cui avrebbe dovuto avere luogo. Analogamente, come la cannabis è utilizzata dall’adolescente per ostacolare la progressiva discesa del corpo astrale dai mondi spirituali, così nell’adulto è utilizzata proprio per permettere al corpo astrale di tornare a innalzarsi verso quei mondi, “sollevandosi” dall’aridità del mondo materiale. Ron Dunselman la definisce proprio “un’inconscia ricerca di una vita spirituale.”
Ciò era già ben noto ai popoli paleo-indiani che le attribuivano origine divina, come riportato nei Veda, definendola “sorgente di gioia e di felicità”. Ancora una volta risulta evidente la differenza con l’oppio, definito invece, per esempio dagli antichi Egizi, come “pianta che dona sogni, sonno e morte”. Accanto al suo uso voluttuario – che aveva sempre e comunque l’intento luciferico di riportare l’uomo verso l’antica percezione dei mondi spirituali – esisteva il suo uso medico come antidolorifico, la cui prima testimonianza si trova in un trattato di medicina cinese del 2700 a.C. e che, come per l’oppio, è un utilizzo tuttora valido. Di uso quotidiano in India già documentato nel 1000 a.C. e descritta da Erodoto come sostanza utilizzata dagli Sciti, il suo rinvenimento all’interno del Necromanteion (il tempio dell’Oracolo dei Morti in Grecia) fa presumere anche un suo uso iniziatico per il discepolo che doveva accedere ai Misteri ellenici.
Furono gli antichi Romani a distruggere i templi misterici – come voleva la loro missione evolutiva di portatori dell’anima razionale – e con essi anche l’uso voluttuario della cannabis per il nostro continente. Infatti i Romani la utilizzarono soprattutto come fornitrice di fibre resistentissime per fabbricare sacchi, indumenti e vele di imbarcazioni, utilizzo che è proseguito nel corso della storia e che ha permesso alle navi spinte dalle vele di canapa di solcare i mari di tutto il mondo. Possiamo senz’altro affermare, citando il Pelikan, che “tramite essa l’essere umano si è fatto per la prima volta una chiara idea del pianeta”.
Il suo utilizzo come tessuto a contatto con l’aria e il calore ci conferma le caratteristiche fondamentali della pianta stessa, di fogliame arioso, impollinata dal vento, completamente aperta alla luce solare. Da sottolineare anche il suo strettissimo rapporto con il calore (altra segnatura della sua natura luciferica), in quanto pianta in grado di crescere a tutte le latitudini, ma produttrice di principio attivo stupefacente in proporzione diretta al calore ricevuto: più il clima è caldo, più si avrà un’alta concentrazione di principio attivo, più è freddo e meno sarà presente, fino a scomparire del tutto nelle piante coltivate al nord (ovviamente in condizioni ambientali naturali e senza apporto di calore artificiale) che forniscono solo fibra tessile e sono praticamente prive di effetti psicotropi.
Riprendendo il nostro viaggio spazio-temporale nel primo medioevo, mentre in Europa la canapa veniva coltivata solo per uso tessile, completamente diverso fu il suo rapporto con gli Arabi: anche a causa del divieto coranico per l’alcol, divenne la principale droga di uso voluttuario che entrò a far parte della cultura araba, come l’alcol di quella occidentale. Nella produzione letteraria araba possiamo rilevare ovunque il profumo dell’hashish (che in arabo significa “erba”), presente nelle atmosfere lascive e sognanti della fiaba, come quelle che pervadono le novelle delle “Mille e una notte”, dove – come narra Dumas a proposito dell’hashish nel suo “Conte di Montecristo” – “il sogno regna come padrone, allora è il sogno che diventa vita, e la vita diviene sogno”.
Come i Romani ebbero il compito di diffondere l’alcol verso Occidente nell’emisfero boreale, così gli Arabi diffusero l’uso della cannabis passando per l’emisfero australe: dal Nord Africa la cannabis raggiunse tutto il continente africano, entrando nell’uso corrente di parecchie tribù sia come farmaco che come droga voluttuaria. Da lì, tramite la tratta degli schiavi, raggiunse il Sudamerica dove fu ribattezzata “marijuana”, sebbene alcuni storici ritengano che già fosse in uso presso gli Aztechi a scopi religiosi. A prescindere dalla sua diffusione a opinione degli storici, ciò che ci interessa è capire quali popolazioni la utilizzarono prevalentemente per i suoi effetti psicotropi. Come abbiamo visto, esse sono le popolazioni dell’Oriente, del Medio-Oriente, quelle di razza nera e di razza mista, come i creoli, che furono gli unici a utilizzarla a questo scopo nel continente americano: tutte popolazioni più recettive alle droghe luciferiche. Al contrario, in Occidente l’uso stupefacente della cannabis non ebbe mai presa fino al Novecento, quando arrivò grazie a quelle popolazioni di immigrati per le quali era parte della loro cultura di origine: i giamaicani in Inghilterra, i sudafricani in Olanda, i maghrebini in Francia, per citarne alcune. Così, partendo dagli ambienti vicini alla musica jazz, iniziò a prendere piede nella cultura occidentale verso la fine degli anni ’50 per poi esplodere letteralmente nel decennio successivo: hippy, studenti, giovani operai e intellettuali iniziarono a fare della cannabis il loro stile di vita, sia con lo scopo di espandere la propria coscienza, sia con intenti meramente voluttuari o come rimedio per la solitudine e il vuoto interiore che la vita occidentale trainata da Arimane stava rapidamente e impietosamente mettendo davanti ai loro occhi. E così ritorna l’immagine del “rifugio luciferico” dall’indifferenza e dal gelo del mondo tecnologico e meccanicista di Arimane (già vista per l’oppio e i suoi derivati) che ha permesso alla cannabis di diventare negli ultimi cinquant’anni la droga più utilizzata e diffusa al mondo, seconda solo all’alcol.
Dove c’è una figura nascosta, con un tratto di china Elsa Fabrega la porta alla luce. Non importa se sia su una vecchia cartina geografica o sulle pagine ingiallite di un erbario seicentesco: tutto nasconde un corpo cui donare vita erotica.
Ho finalmente incorniciato questa sua opera presa alla mostra del settembre scorso qui a Roma, e aspetto il ritorno dell’amica Elsa per una nuova mostra!
È dell’oppio che innanzitutto la mia anima è malata. Io vado a cercare nell’oppio che consola, un Oriente all’oriente dell’Oriente. (F. Pessoa, “Opiàrio”, 1914)
Come annunciato nello scorso articolo, il nostro viaggio di scoperta delle sostanze stupefacenti inizierà dal lontano Oriente, dove agli albori dell’epoca post-atlantica l’uomo incontrò il papavero da oppio, la pianta in assoluto più vicina all’entità luciferica. Del resto, in quel continente dove le catene montuose si dispongono da Est a Ovest (e non da Nord a Sud come nel continente americano), gli influssi della subnatura arimanica non hanno mai avuto facile accesso, lasciando campo libero all’operare di Lucifero. Tale entità, oltretutto, ha influenzato l’evoluzione dell’uomo con maggior forza nelle epoche passate, cedendo man mano il campo ad Arimane in epoche più recenti, fino all’attuale dove quest’ultimo ha acquisito un’indubbia supremazia. Qual è dunque la proposta luciferica per combattere questo mondo freddo, tecnologico, materialistico, dove non c’è più spazio per la poesia e la bellezza, impietrite nel gelido calcolo razionale di Arimane? Sempre la stessa, da millenni: la fuga, il rifiuto della realtà terrestre per rifugiarsi in illusori mondi spirituali, nel passato, nell’idea del Bello, con un senso di superiorità rispetto alla massa di formichine operose che agiscono meccanicamente nella volgare materia. E se tale proposta ai nostri giorni raccoglie ormai pochi consensi, dobbiamo pensare che all’inizio dell’epoca post-atlantica (circa diecimila anni fa, al debutto in Asia del periodo paleo-indiano) era parte integrante dell’uomo che cominciava ad aprire coscientemente gli occhi sul mondo fisico-sensibile. Il paleo-indiano avvertiva infatti il progressivo oscuramento della percezione diretta dei mondi spirituali avuta fino ad allora – e per questo da lui considerata l’unica realtà, il nirvana – a vantaggio della percezione sempre più chiara del mondo materiale terrestre, da lui ancora considerato illusione, maya. Tuttavia così doveva procedere l’evoluzione (basti pensare che ai giorni nostri i concetti si sono completamente ribaltati: per noi l’unica realtà è il mondo materiale, mentre i mondi spirituali non sono che illusione, maya) e per questo il paleo-indiano conservava una struggente nostalgia verso quei mondi spirituali dai quali si era inesorabilmente separato. Tale nostalgia, insieme al concetto di maya e nirvana, conserva un’eco profonda nelle attuali religioni o filosofie orientali che derivano da quei tempi remoti. E proprio in quei tempi apparve lo splendido papavero da oppio, colmo del suo lattice magico che prometteva all’uomo di ritornare nelle braccia delle divinità, facendogli dimenticare il mondo materiale e i suoi dolori – fisici e animici – sostituendo la beatitudine alla nostalgia, e il sogno alla chiara coscienza diurna. In sostanza, l’intento del papavero da oppio era – ed è tuttora – di annullare nell’uomo gli effetti della caduta nella materia, di cancellare quel distacco dai mondi spirituali, così come rappresentato, per esempio, nell’immagine della “cacciata” dal Paradiso Terrestre di tradizione giudaico-cristiana.
“Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!” Genesi (3:17)
Dolore, fatica, sudore, necessità di mangiare, malattia, morte. Tanto all’uomo è costato scendere e operare nella materia, aprire gli occhi alla conoscenza, acquisire progressivamente l’autocoscienza con il progredire dell’evoluzione. L’oppio ci permette di cancellare tutto ciò: insieme al dolore e alla nostalgia verrà quindi oscurata anche la coscienza. Per fare questo ci riporta alla condizione umana precedente alla “caduta” (chiamata in scienza dello spirito epoca lemurica), quando l’abbozzo umano era simile a un embrione privo di coscienza che si nutriva respirando l’atmosfera lattiginosa intorno alla Terra, e con lui fluttuavano in quel latte primordiale le forme vegetali e animali, tra le rassicuranti braccia delle divinità. Ma poi gli occhi dell’uomo si aprirono e tutto l’Eden precipitò nella materia: nacquero l’aria, l’acqua, i minerali, e tutte le forme di vita si condensarono per diventare man mano simili a quelle attuali. Non vi era più quel latte primordiale, tuttavia alcune piante conservarono al loro interno quel processo galattogeno che non era ormai più possibile all’esterno, formando il lattice come oggi lo conosciamo.
Incidendo la capsula del Papaver somniferum prima della fioritura si ottiene proprio quel lattice che, essiccato, costituisce l’oppio. Ma come agisce questa droga nell’uomo per riportarlo alla connessione coi mondi spirituali che aveva in quelle epoche? Come ci riferisce Steiner in “Natura e uomo secondo la scienza dello spirito” (O.O. 354), l’oppio agisce con particolare intensità sul corpo astrale: l’uomo fa uscire il corpo astrale dal corpo fisico, e percepisce il distacco del corpo astrale come una profonda sensazione di benessere. In realtà ciò accade all’uomo ogni notte nel sonno, quando i corpi superiori (corpo astrale e Io) si staccano dai corpi inferiori (corpo fisico e corpo eterico) lasciando sul letto una sorta di vegetale senza coscienza. Proprio per questo l’uomo, durante il sonno notturno, non può percepire i mondi spirituali dove si immerge. Con l’oppio, invece, una coscienza attutita permane e l’uomo può percepire, seppur non chiaramente, i mondi spirituali. Inoltre, in tale stato di distacco parziale dei corpi superiori da quelli inferiori (per una trattazione più completa rimando come sempre al mio saggio “Paradisi Artificiali”, edito da Novalis), l’uomo non avverte più le necessità relative al vivere terrestre né, soprattutto, ogni sorta di dolore, sia esso fisico che animico. Tale proprietà era ben conosciuta dai popoli antichi, che ben presto fecero entrare l’oppio in ogni pratica medica e nel vivere quotidiano.
La prima menzione storicamente accertata del Papaver somniferum si trova su una tavoletta sumera del 3500 a.C., dunque durante il periodo paleo-persiano, dove il papavero è chiamato “la pianta della gioia” ed è descritto come un narcotico. In seguito, nel periodo egizio-caldaico, è descritto sia come narcotico che come rimedio “per i bambini irrequieti”, ma anche come droga che provoca “sogni pericolosi”. Sulla tomba di un medico egizio appare questa straordinaria descrizione: “Pianta alla soglia della notte e della morte, che porta via dispiaceri e conoscenza e che dona sogni, sonno, e morte”. Nel suo spostamento verso Occidente, l’oppio approda nell’antica Grecia, rimanendo legato, anche iconograficamente, agli dei Thanatos (dio della morte), a suo fratello Hypnos (dio del sonno) e a suo figlio Morfeo (dio dei sogni, al quale si ispirò il nome di “morfina” per il suo alcaloide principale), che vengono spesso rappresentati con ghirlande di papaveri al collo. Anche nell’Odissea si parla chiaramente di oppio quando Omero descrive quella pozione che arriva dall’Egitto (il “nepente” dal greco νη e πενθες, ovvero rimedio contro il dolore e le pene) che, mescolata al vino, cancella l’ansia, il dolore e perfino il ricordo di ogni sofferenza. Con Omero ci troviamo nell’ultima parte del periodo egizio-caldaico, dove l’oppio è ancora utilizzato per le sue azioni spirituali piuttosto che per quelle meramente fisiche. Con l’inizio del periodo greco-latino, in Occidente l’oppio rimase in uso solo per le proprietà di antidolorifico lungo tutto il pragmatico millennio romano, per poi quasi sparire dall’Europa medievale. Non così in Oriente, dove da millenni (per le ragioni esposte prima) faceva ormai parte della vita quotidiana, e nel medio-oriente arabo, dove l’interdizione coranica del vino spianò la strada sia all’oppio che alla cannabis quali droghe agenti sulla psiche, oltre ovviamente al loro uso medico.
Così possiamo constatare – come accadrà anche nella trattazione di tutte le prossime droghe – che ogni sostanza stupefacente ha periodi, luoghi e popolazioni d’elezione che, nel caso dell’oppio, corrispondono all’Oriente. E in Europa? Dopo l’oblio medievale l’oppio rientra sulle ali della medicina araba, e viene più tardi codificato da Paracelso nella sua tintura di laudano, l’antidolorifico par excellence, rimasto peraltro in uso fino a pochi decenni fa. In quell’epoca abbiamo dunque in Europa un utilizzo ancora prettamente medico, mentre l’uso voluttuario comincia con la Rivoluzione Industriale. All’inizio dell’Ottocento, infatti, il mondo occidentale scivola sempre più velocemente nelle grinfie di Arimane: si assiste alla meccanizzazione della produzione e dello stile di vita; il positivismo, il materialismo e l’evoluzionismo si impongono come uniche forme di pensiero fino a raggiungere il culmine alla fine del secolo; l’alienazione dell’uomo dallo spirituale procede incessante in un mondo sempre più tecnologico e terrestre. In tale contesto furono per primi gli artisti e gli intellettuali a rifugiarsi nel paradiso luciferico dell’oppio come rifiuto della veloce e forzata discesa nella materia (Baudelaire, Coleridge, Apollinaire, Toulouse-Lautrec, Wagner, Cocteau, solo per citarne alcuni), seguiti dalle classi operaie che trovarono nell’oppio la consolazione a una misera vita di duro lavoro meccanico. Fumerie d’oppio sorsero numerose in tutte le città europee (a Tolone nel 1905 si contavano circa duecento maisons d’opium), e la ricerca di tale rifugio luciferico aumentò proporzionalmente al progredire incessante del dominio arimanico.
Ben presto si resero evidenti i deleteri effetti di tossicodipendenza sui consumatori, le cui crisi d’astinenza venivano chiamate ingenuamente “fame d’oppio”, giacché la droga veniva mangiata. Per ovviare a questo inconveniente si pensò allora di iniettare la morfina (l’alcaloide principale dell’oppio, già isolato all’inizio dell’Ottocento) con le siringhe di Pravaz appena inventate. Il rimedio, come vedremo spesso accade, fu peggiore del male, e agli oppiomani si aggiunsero i morfinomani, primi fra tutti i soldati delle grandi guerre come la franco-prussiana o la secessione americana, ma anche insospettabili uomini di stato come Bismarck, oltre a un numero incalcolabile di persone, dal momento che l’iniezione di morfina era divenuta una vera e propria moda trasversale a tutte le classi sociali.
Con una modifica della molecola della morfina, ai primi del Novecento si giunse alla realizzazione dell’eroina, che deve il suo nome alle qualità “eroiche” attribuite alla sostanza, ritenuta priva degli effetti collaterali di oppio e morfina. E pensare che invece proprio con l’eroina, in particolare se iniettata per via endovenosa, tutti gli effetti luciferici dell’oppio raggiungono la massima potenza: il distacco dei corpi superiori avviene repentino e violento, in una sensazione indescrivibile di benessere ben nota ai tossicomani come “rush”, dovuta alla liberazione di forze eteriche dal cuore, organo bersaglio dell’eroina. Ma se il distacco dei corpi superiori è percepito come una sensazione beatificante, una volta terminato l’effetto della sostanza questi ultimi devono sempre “rientrare” per ricostituire le corrette connessioni con i corpi inferiori. Come vedremo nei prossimi articoli, questa è una caratteristica comune a tutte le droghe – ognuna con le proprie particolarità – perché esiste sempre un “giorno dopo” in cui l’Io del consumatore tenta di ristabilire le corrette connessioni dei corpi costitutivi. Proprio in questa operazione risiede la tragedia di ogni droga e di ogni consumatore, operazione che risulta sempre più difficile quanto più il consumo della sostanza viene ripetuto nel tempo e le connessioni ulteriormente danneggiate. Per sostanze come la cannabis o l’alcol i traumi sono più leggeri (ma con un uso cronico possono diventare comunque irreversibili), con sostanze come l’oppio o l’LSD la “rottura” delle connessioni tra i corpi costitutivi può risultare irreparabile già dopo la prima assunzione.
Abbiamo visto che l’oppio agisce nello specifico “spezzando” la connessione tra corpo astrale e corpo eterico, permettendo ai corpi superiori di staccarsi dal fisico. Tale distacco possiamo immaginarlo come un pendolo: tanto lontano e tanto violentemente vengono “scagliati” i corpi superiori verso il mondo spirituale, altrettanto violentemente rientreranno nelle connessioni con il fisico, generando i noti fenomeni dell’astinenza, come forti dolori e crampi muscolari, emicranie, vomito, diarrea, stati psicotici e di prostrazione: tutto il “dolore” che l’oppio aveva allontanato rientra con violenza nel consumatore. Inoltre, con il ripetersi delle assunzioni e dei relativi danneggiamenti, sarà sempre più difficile ristabilire le corrette connessioni, fino ad arrivare all’impossibilità totale che si traduce nell’incurabile dipendenza del tossicomane.
È facile comprendere come l’assunzione per via orale di oppio generi effetti molto più attenuati rispetto all’iniezione endovenosa di eroina, che per questo motivo rimane la più pericolosa in questa classe di sostanze. A causa della sua violenza, l’eroina è inoltre in grado di spezzare addirittura la connessione tra corpo astrale e Io, lasciando quest’ultimo chiuso in un “paradiso privato” al di sopra di ogni esistenza materiale, staccato e disinteressato a qualunque sensazione, emozione, dolore (non avendo più connessioni con l’astrale), ma anche a ogni tipo di sentimento, che sia di amore, di ammirazione, di rispetto, o a qualunque impulso di tipo morale. In questo stato di distacco dell’Io, il consumatore è in grado di compiere qualunque azione pur di permanere nel suo paradiso privato. È evidente che con l’eroina le caratteristiche luciferiche dell’oppio raggiungono il loro apice, che dovremo tenere a mente per poi metterlo in polarità con l’estremo opposto della cocaina, dove è invece l’influsso arimanico a raggiungere il massimo grado.
Nel prossimo articolo ci occuperemo della cannabis, un’altra droga luciferica che condivide con l’oppio molte caratteristiche ma che ha anche importanti differenze, prima fra tutte il carattere più euforico e “sociale”, che dagli oscuri mondi delle fumerie d’oppio ci porterà alle atmosfere oniriche e sensuali delle “Mille e una notte”.
Vegliate e state in ascolto, solitari! Dal futuro giungono venti dal battito d’ala segreto; e a orecchi fini perviene una buona novella. Voi solitari di oggi, voi che vi appartate, dovrete diventare un popolo: da voi, che scegliete voi stessi, deve nascere un popolo eletto – e da esso il superuomo. In verità, un luogo di guarigione deve diventare la terra! Già l’avvolge un nuovo profumo, un profumo di salvezza – e una nuova speranza.