Il 18 e 19 settembre 2020 si è svolto a Milano il primo trofeo Arbiter per gli abiti su misura, che ha visto coinvolti i migliori sarti italiani. Ho avuto la fortuna di indossare l’abito creato dall’amico Francesco Florio, che si è aggiudicato il premio per il miglior pantalone.Una bellissima esperienza, resa indimenticabile dalla magnifica organizzazione di Arbiter.
Colonna dedicata al Piave, posta all’ingresso del Vittoriale degli Italiani.
Il Piave mormorava Calmo e placido, al passaggio Dei primi fanti, il ventiquattro maggio L’esercito marciava Per raggiunger la frontiera Per far contro il nemico una barriera
Muti passaron quella notte i fanti Tacere bisognava, e andare avanti
S’udiva intanto dalle amate sponde Sommesso e lieve il tripudiar dell’onde Era un presagio dolce e lusinghiero Il Piave mormorò: “Non passa lo straniero”
Ma in una notte trista Si parlò di un fosco evento E il Piave udiva l’ira e lo sgomento Ahi, quanta gente ha vista Venir giù, lasciare il tetto Poiché il nemico irruppe a Caporetto
Profughi ovunque, dai lontani monti Venivan a gremir tutti i suoi ponti
S’udiva allor, dalle violate sponde Sommesso e triste il mormorio de l’onde Come un singhiozzo, in quell’autunno nero Il Piave mormorò: “Ritorna lo straniero”
E ritornò il nemico Per l’orgoglio, per la fame Volea sfogare tutte le sue brame Vedeva il piano aprico Di lassù, voleva ancora Sfamarsi e tripudiare come allora
“No” disse il Piave, “No” dissero i fanti Mai più il nemico faccia un passo avanti
E si vide il Piave rigonfiar le sponde E come i fanti combattevan le onde Rosso del sangue del nemico altero Il Piave comandò: “Indietro va’, straniero”
Indietreggiò il nemico Fino a Trieste, fino a Trento E la vittoria sciolse le ali al vento Fu sacro il patto antico Tra le schiere, furon visti Risorgere Oberdan, Sauro, Battisti
Infranse, alfin, l’italico valore Le forche e l’armi dell’impiccatore
Sicure l’Alpi, libere le sponde E tacque il Piave: “Si placaron le onde” Sul patrio suolo, vinti i torvi Imperi La Pace non trovò né oppressi, né stranieri!
Spesso ho provato a descrivere quello che considero il capolavoro di Nabokov, ma vuoi per timore reverenziale, vuoi per l’effettiva impossibilità di afferrarlo, non sono mai riuscito a trovare le parole (a differenza di Nabokov, che le trova SEMPRE). Tuttavia un simile romanzo non può rimanere semisconosciuto, e il nome dell’immenso Nabokov associato solo a “Lolita”. Ecco, prima di affrontare Ada, bisogna dimenticarsi di Lolita. Ma non troppo, perché l’erotismo nabokoviano impregna ogni pagina, sempre nel suo stile impareggiabile, anche negli eccessi, perfino nell’incesto che ci ritroviamo ad amare come il filo che lega tutto il romanzo.
Prima di affrontare Ada bisogna prepararsi a una lettura impegnativa, coltissima, a volte ridondante e pretenziosa. Ma non troppo, perché Nabokov la maneggia con disinvolta leggerezza e acuta ironia, prendendosi in giro e prendendoci in giro così bene che riusciamo a gustare tutto il lauto pasto, inchinandoci alla sua grandezza: i giochi di parole tra il russo, il francese e l’inglese (da diventare matti) inseriti in una narrazione mirabolante e vertiginosa come un ottovolante; l’ambientazione in un passato futuristico a cavallo tra un ‘800 e un ‘900 che non sono mai esistiti, ma che emergono così reali che ci chiediamo se non ci sia davvero un’Anti-Terra dove Van e Ada si sono desiderati e respinti per novant’anni; i continui rimandi, spesso dissacranti, ai grandi autori russi – Tolstoj in testa – e all’immancabile Proust. In effetti Ada potrebbe essere considerata la “Recherche” di Nabokov, dove c’è tutto del suo genio letterario.
Mi fermo qui. Non vogliatemene, era giusto per dare un’idea, e magari farvi venire il desiderio di affrontare questo capolavoro di 600 pagine (più le 30 di note) che, vi assicuro, vi farà scalare vette dove raramente è arrivata la letteratura.
“Quel giorno di maggio del 1797 in cui Venezia avvistò alle bocche di Malamocco le navi del futuro “imperatore dei francesi”, capì che la propria indipendenza era finita per sempre e che per sopravvivere, negli anni a venire, sarebbe stata costretta a matrimoni forzati col dominatore di turno. Sapeva che quell’ometto gonfio di sé non sarebbe stato capace – né degno – di farsi soggiogare dal suo fascino, quindi rinunciò a vestirsi coi suoi abiti migliori. Ne aveva tanti, accumulati nei secoli e indossati alle ultime feste durante le quali, consapevole della fine imminente, si era lasciata andare a tutti gli eccessi; ma quel giorno indossò un semplice tabarro di seta e si coprì il viso con una pesante veletta nera, prendendo un lutto che non abbandonò più. […]
Col tempo divenne sempre più taciturna e impenetrabile, eppure capace di leggere nell’animo degli esseri umani che si perdevano nei suoi dedali. Ma solo ad alcuni di essi accordò l’immenso privilegio di spingersi nei suoi recessi più intimi e di respirare l’alito della sua anima più vera, al prezzo di un’eterna e incondizionata devozione. E solo a quei pochi permise durante il Carnevale, quando smetteva il tabarro nero e tornava a indossare lo sfarzo dei secoli migliori, di godere dei suoi gioielli nascosti. Si trattava di spiriti macerati dalla continua ricerca del Bello, dalle emozioni artificiali, spiriti sfibrati dall’abitudine di smarrirsi nei propri mondi. Essi erano i prescelti.”
Tratto da “Il sole a Occidente”, ed. Historica (2016)
L’Ardito è molto più di un romanzo storico: è storia vivente. Definirlo romanzo può fuorviare, poiché sottintende un lavoro di fantasia dell’autore con licenza di modificare i fatti realmente accaduti. Non è questo il caso. Roberto Roseano riporta con precisione ammirevole – e ovviamente con i necessari aggiustamenti stilistici – il diario degli ultimi due anni di guerra del nonno Pietro (classe 1896, appena ventenne all’epoca), prima Fante e poi Ardito del XXII Reparto d’Assalto, sui fronti dell’Isonzo e del Piave.
In quei giorni drammatici, Pietro scrisse quotidianamente il suo diario “per non pensare” e “per non dimenticare”, in uno stile altamente evocativo. Grazie all’opera magistrale del nipote, possiamo oggi ricordarlo e vivere in primissima persona quei mesi terribili ed eroici. Non vengono raccontati solo assalti e conquiste (e ritirate, come la tragica Caporetto), ma rapporti umani tra commilitoni, speranze, disillusioni, i duri addestramenti per diventare Arditi, le licenze nelle città ostili ai soldati, la paura, l’orgoglio, l’amicizia, tutto descritto con realismo vivissimo, impregnato di modi di dire e dialetti stretti, in quella galassia di culture che era il Regio Esercito della Grande Guerra.
Il romanzo è corredato da numerose e notevoli note a piè pagina (nonché di foto in calce al libro) che non trascurano alcun personaggio, alcun luogo né fatti storici, riportati con accuratezza dall’autore, a testimonianza dell’enorme lavoro di studio compiuto con autentica passione. Chapeau.
Lettura suggerita a tutti (anche se può procedere con difficoltà per chi ha scarse conoscenze storiche), ma assolutamente consigliata per gli amanti del genere.
Per il suo valore storico, oltreché letterario, dovrebbe essere un testo obbligatorio per l’ultimo anno di liceo. Ma questa, purtroppo, è fantascienza.
Nelle grotte cristalline un popolo esuberante viveva nell’abbondanza. Fiumi, alberi, fiori e animali avevano sensi umani.
Più dolce era il sapore del vino donato da una visibile pienezza giovanile, un dio nei grappoli, un’amorosa, materna dea cresceva nei gonfi, aurei covoni.
Era la sacra ebbrezza d’amore un dolce rito della divinità più bella, un’eterna variopinta festa dei figli del cielo e degli abitatori della terra passava stormendo la vita, come una primavera, attraverso i secoli.
C’è un 8 settembre che andrebbe ricordato e uno che andrebbe dimenticato. E invece si fa l’inverso, si ricorda la resa incondizionata dell’8 settembre 1943 che lasciò inorriditi anche i nostri futuri alleati, mentre si dimentica l’8 settembre del 1920 – esattamente cento anni fa – quando Gabriele d’Annunzio promulgò la Carta del Carnaro a Fiume, una costituzione certamente utopica, ma avanzatissima e rivoluzionaria, dove si riconoscevano uguaglianze, diritti e libertà che dovettero attendere almeno un altro mezzo secolo per essere riconosciuti in Italia.
Per chi non l’avesse ancora fatto, ne consiglio la lettura integrale, per esempio a questo link:
Festeggiamo dunque il centenario brindando con Sangue Morlacco, ispirati dall’articolo XIV della Carta: “La vita è bella, e degna che severamente e magnificamente la viva l’uomo rifatto intiero dalla libertà.”